Nella Città pensata dai Carafa nel 1688, solo poche famiglie ebbero il privilegio di costruire le loro “case palaziate” nella piazza centrale, a far da cornice alla potentissima (ricchissima) collegiata di S. Martino che fu scenograficamente progettata sul lato superiore dell’omonima piazza. 

Lungo le due strade che la costeggiano, si elevano, imponenti e stilisticamente pregevoli, una serie di «case palaziate- scrive R.Pescitelli con i caratteristici portali …”. I palazzi, manco a dirlo, appartenevano ai “nobili” cerretesi arricchitisi con la filiera della lana. Tra quei palazzi era compreso pure quello ove è l’attuale Farmacia Pescitelli, e che avrebbe dovuto essere il Pal. Ducale. Ma il Palazzo fu ceduto, già nel 1690, dal dottor Girolamo Pelosi, agente generale del duca Marzio Carafa, al dottor Giovan Domenico d’Adona per un prezzo di millequarantuno ducati, di cui solo ottocento furono pagati dal d’Adona, i restanti duecentoquarantuno furono donati dal feudatario «ex mera munificentia, benignitate, ac liberalitate».

E’ mai possibile che i Carafa, padroni e gestori inflessibili del rispetto delle regole durante la ricostruzione, rinunciassero alla tribuna d’onore della piazza al pari di una qualsiasi famiglia di operai?  “Solo nel 1747, scrive sempre Pescitelli, iniziarono i lavori del loro nuovo, imponente palazzo, in Piazza L. Sodo, di fronte alla Cattedrale. “

Per i Carafa ci sarebbe stato più di mezzo secolo di vuoto, di rinuncia ai simboli del potere, a Cerreto? 

Improbabile! 

I Carafa non penso potessero rinunciare ad ostentare il loro Potere Civile di fronte alla Chiesa che, con la sua maestosa presenza, incombeva sul palcoscenico di piazza San Martino. Parrocchia così potente da relegare in periferia il Vescovo. Come risolsero il problema, fondamentale per il controllo del potere, visto che la chiesa di San Martino esponeva orgogliosa sulla sua facciata il calice con l’ostia, simbolo della congrega?

Ecco l’interpretazione che mi suggerisce lo stemma.

Come è noto, nella Vecchia Cerreto come nella nuova, il Feudatario doveva essere proprietario di una  DUCAL TAVERNA dove accogliere i viandanti, dar loro da mangiare, da dormire, dare ricovero a carrozze e cavalli. Per costruire questo palazzo i Carafa scelsero proprio il terreno che occupava “per intero”, il lato Sud di Piazza San Martino, proprio di fronte alla Parrocchia che, con la sua scenografica scala, incuteva ammirazione e timore ai cittadini. Ma fu solo una Taverna che realizzarono i Carafa?  Lo stemma imponente apposto sulla chiave dell’arco del portone di ingresso posto lungo la Piazza di mezzo, sembra essere davvero “troppo” per una semplice taverna, così come la presenza delle carceri che avevano accesso sia dalla via che allora si chiamava “Piazza Colonna”, che dall’interno della struttura. Uno stemma da decifrare ed una presenza inquietante, quella delle carceri, che di norma si realizzavano nei palazzi del potere. Stemmi, carceri, scalinate su due lati  della Piazza centrale: due simboli del potere opposti e contrapposti, un unico messaggio: qui ci siamo noi a comandare, col potere che ci viene conferito delle due autorità massime incarnate dal Papa e dall’Imperatore. Una alleanza legata sull’interesse che non poteva quindi non avere punti di scontro anche accesi.  A Cerreto, come altrove, il rapporto tra autorità “politica” e “spirituale” non fu tutto rose e fiori, secondo tradizione storica iniziata con la “guerra per le investiture”. Ricordo che quando il conte Diomede III Carafa  eresse la chiesa di S. Martino a collegiata nel 1548, la dotò di un capitolo di undici canonici più l’arciprete e raggruppò varie parrocchie, ma si riservò, in cambio di cotanti benefici, il diritto di nominare e di revocare l’arciprete. La vicenda rimanda a quanto ottenuto da Papa Gregorio VII che, fervente sostenitore del primato papale sopra qualsiasi altro potere, entrò duramente in conflitto con l’imperatore Enrico IV di Franconia, dando inizio ad uno scontro con risvolti gravi e inediti: l’imperatore arrivò ad ordinare al pontefice di dimettersi dal proprio ruolo e questi, per tutta risposta, giunse a scomunicare e deporre il primo. Celebre il viaggio che Enrico intraprese nel 1077 per chiedere perdono a Gregorio VII,

Il doppio cognome? A Cerreto già nel 700!

ospite in quel tempo della contessa Matilde di Canossa, affinché gli togliesse la scomunica e quindi ripristinasse il dovere di obbedienza da parte dei suoi sudditi, già sollevati contro di lui

E questo imponente palazzo, che è arrivato a noi attraverso tante modifiche, per fortuna leggibili dopo un accorto restauro, fu posto proprio a bilanciare il potere ecclesiastico, e la dice lunga sull’importanza di chi ne era proprietario e/o lì abitava. Una struttura a corte che, maestosa,  comprendeva sia l’attuale Palazzo del Genio, sia le carceri. Un’unica struttura che spero tale risulti anche dopo i lavori in facciata, che non possono riguardare solo la facciata lungo il corso, ove prospetta il maestoso portale con lo stemma. Uno stemma particolare che non è altro che la somma di due diversi stemmi: quello dei Carafa e quello dei Colonna: due famiglie potenti che uniscono le loro forze…ed i loro cognomi. Una sorta di anticipazione della legge appena votata sul doppio cognome. 

I palazzi laterali, di proprietà di signorotti ricchi ma privi di un nobile casato, dovettero accontentarsi, in mancanza di uno stemma di famiglia, di apporre un mascherone che, al centro della rosta, sembra ancora oggi irridere i comuni mortali.

Chi erano le due famiglie che decisero di racchiudere il loro casato in un unico stemma?

La prima era quella dei Carafa, una nobile e antica famiglia di origine napoletana, discendente dall’ancor più antica famiglia Caracciolo. Divisa in numerosi rami, i cui principali e più importanti furono i Carafa della Spina e i Carafa della Stadera, decorata dei più alti titoli, raggiunse l’apice della sua potenza con l’elezione al soglio pontificio di Gian Pietro Carafa, papa con il nome di Paolo IV. Come si sa, furono signori di Cerreto dal 1483, grazie a re Ferdinando che, dopo che nel 1480 Alfonso re di Napoli aveva dichiarato città Cerreto, la vendette con i suoi casali (Civitella e San Lorenzello) a Diomede Carafa. 

Il doppio cognome? A Cerreto già nel 700!

I Colonna, invece, erano una storica casata patrizia romana, una delle più importanti nel Medioevo e nell’Età moderna. La loro storia iniziò nove secoli fa. Il primo esponente documentato fu infatti Pietro, vissuto tra il 1078 e il 1108 nella campagna al sud di Roma, nei pressi del paese di Colonna, che diede il nome alla casata. Nella loro millenaria storia si contano un Papa, ventitré cardinali, mecenati, letterati, filosofi, uomini d’arme dello Stato Pontificio, del Regno di Napoli e dell’Impero spagnolo, diplomatici e uomini politici dell’Italia unita. 

Nel 1730 Domenico Marzio Carafa,  VIII duca di Maddaloni e XI Conte di Cerreto dal luglio 1703,  sposò Anna Colonna per cui, vista l’importanza della famiglia di Anna, lo stemma araldico, una sorta di cognome grafico, fu bipartito in onore della moglie. Un doppio cognome, il segno di un matrimonio che creava alleanza tra i Colonna e i Carafa. Il segno di un potere raddoppiato. Potere che si concretizzò nel 1735, quando nel palazzo fu ricavato un grosso salone, poi trasformato in teatro, da destinare alle riunioni dell’Università.

Il doppio cognome? A Cerreto già nel 700!

Il Conte Domenico Marzio,  leggo nelForum Italiano della Commissione Internazionale permanente per lo Studio degli Ordini Cavallereschi, dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano e di Famiglie Storiche d’Italia“,  fu anche 2° principe del Sacro Romano Impero, conte palatino, 3° principe della Guardia, 8° marchese di Arienzo, 11°conte di Cerreto et cetera. Fu anche letterato e fece parte dell’ Arcadia.

Questo mi racconta lo stemma, questo raccontano i cinque palazzi che fanno da cornice a Piazza San Martino, il cuore pulsante  e scenografico della Cerreto del settecento. Una storia semplice, nobile ed umile nello stesso tempo. Comunque la nostra storia fatta di “case e palazzi”. Una storia che non andrebbe “falsificata” con interventi all’apparenza innocenti, come sono le pitturazioni delle facciate, ma in realtà possibili fonti di “inquinamento storico”. L’uomo colto non dovrebbe dividere nemmeno coi colori “perché questo è mio e quello è tuo”, ciò che i nostri grandi avi hanno realizzato con un progetto unitario. Lo hanno spiegato, ognuno con le sue notevoli capacità, tanti nostri illustri concittadini. Ed io umilmente mi accodo, con una speranza: almeno il colore della facciata, l’elemento più visibile, non divida uno stesso palazzo, trasformandolo nella somma di due-tre case.  Sembra strano che da una operazione così semplice e naturale: “questa parte di casa è mia e la voglio di questo colore…”, possa nascere una  lettura storica tanto diversa e dal significato opposto: non più Piazza della casta al potere, quella che deteneva i cordoni della borsa, potere delle pecore-pecus, dei panni lana, ma piazza di tutti. Sicuramente un segno di democrazia… peccato che non sia coerente con la nostra storia. 

Lorenzo Morone

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