Fino a che punto della nostra scala evolutiva bisogna risalire se vogliamo rispondere alla domanda : perché l’uomo è l’unica creatura che mostra aggressività intraspecifica, verso i propri simili, fino ad uccidere?
Se risaliamo a ritroso la storia umana troviamo crani fracassati persino nel Paleolitico; dunque, dove cercare il momento in cui l’uomo ha perso la sua innocenza, il suo paradiso, ed è diventato la creatura che oggi conosciamo?
A questa domanda tentiamo di rispondere cercando aiuto nei miti antichi, in quelle figure mitologiche che sono divenute immagini archetipe, tracce ancestrali collettive che determinano inconsciamente il nostro comportamento.
Da quale figura mitica iniziare se non da Caino?
Un giorno guardò con attenzione suo fratello Abele e per la prima volta vide un “Altro”. Vide con sgomento che non poteva condividere con lui, per quanto lo desiderasse, né i sentimenti, né il lavoro ,né l’amore di Dio. Vide questa diversità senza speranza di essere ricomposta in un’unione, in un “Noi” e la disperazione lo travolse, fino a desiderare che l’altro non fosse mai esistito, fino a ricomporre quell’unità perduta attraverso la morte.
La comparsa dell’ “Altro” nella vita dell’uomo segna non solo l’insorgenza della sua autocoscienza, del suo essere peculiarmente uomo, ma segna anche il distacco irreversibile rispetto ai suoi simili, che può manifestarsi con sentimenti diversi: di indifferenza, di paura, di ostilità, di distruttività violenta. L’Altro diviene non solo un elemento estraneo, diverso, altro da me, ma limitante, concorrente, pericoloso, un nemico da neutralizzare e/o da abbattere. L’enfer c’est les autres ( l’Inferno sono gli altri) dirà Jean Paul Sartre.
Un altro mito a cui attingere, un’altra scissione nella nostra storia evolutiva, ci viene narrato dal filosofo Platone nel dialogo “ Il Simposio”.
All’origine, narra il filosofo, l’uomo era doppio: aveva due teste, due cuori, quattro braccia, quattro gambe. Era forte, molto forte, tanto da sfidare la divinità Zeus e da indurla a punire la loro hybris, la loro tracotanza, e a dividerli con un colpo di accetta in due. Da allora ogni metà cerca disperatamente l’altra perduta e l’amore è l’essenza di tale ricerca. Ma, a guardar bene, questa scissione può essere letta anche come quel tentativo di separare la parte razionale: il Bene, dalla parte istintuale: il Male, presente in ogni essere umano. Un progresso dal punto di vista morale, ma un danno dal punto di vista psichico. Impulsi giudicati, perciò, inaccettabili sono stati proiettati sull’ “Altro” nel tentativo vano di liberarsi di essi.
Una doppia scissione nel nostro processo evolutivo, allora, che ha provocato a livello interno un rifiuto delle pulsioni vitalistiche viste come negative, cattive, da espellere dal proprio Sé e a livello esterno l’esigenza del “nemico”. del capro espiatorio su cui proiettare le nostre istanze più bestiali nel tentativo di liberarcene, di purificarci. La violenza verso gli altri è, allora, quel tentativo di distruggere, di cancellare dal mondo quella dimensione animale la cui esistenza è giudicata inaccettabile per l’essere umano.
Come rimediare allora?
Innanzitutto riconoscersi uomo totale, tragico alla maniera di Nietzsche, consapevole di essere inestricabilmente razionalità e distruttività, bontà e meschinità. Coltivare e praticare, poi, nei rapporti con gli altri non tanto o non solo l’amore, elemento costruttivo e distruttivo al contempo, ma la Tenerezza, quella capacità di essere per l’altro non un nemico, ma qualcuno che c’è, di cui si ha bisogno nel proprio percorso di vita.
Angelo Mancini