Guardia Sanframondi è stata sempre un paese singolare: per la sua antichità; per le sue contraddizioni; per il suo infinito spirito di conservazione; per le manifestazioni della sua religiosità; per l’attaccamento dei suoi abitanti alle tradizioni e ai tesori tramandati dai padri; per il rapporto che riesce a instaurare con tutto ciò che la sorte riserva.
Insomma in questo borgo, continuamente sbattuto, ossigenato e rivitalizzato dalle raffiche della pura bora del Nord, gli eventi assumono sempre un aspetto particolare. Diventano subito storia, e non si fermano qui: trovano sempre qualcuno che li mitizza, li trascina nel mondo dell’ ”epos” e dà loro l’aspetto di leggenda indimenticabile. Detto destino abbiamo riservato anche alla nostra Fontana del Popolo: Si era in piena età della Bella Époque. Era iniziato da poco l’ultimo ventennio del secolo romantico e in questo paese, rude nei modi, ma dolcemente ruggente nel sentimento (la prima contraddizione), si sentiva il bisogno di onorare le grandi opere che in tre o quattro secoli erano state realizzate da un gruppo estraneo al borgo, quello dei conciatori di pelle. Erano ebrei soggetti alla diaspora, che, capitati a Guardia tra il Quattrocento e il Cinquecento, erano stati ospitati ed erano, grazie alla loro attività, diventati i motori della economia locale. L’onore ad essi riservato consisteva nel sistemare definitivamente e abbellire con grande decoro tutta l’area che circondava la Chiesa di San Sebastiano, quella bomboniera per cui detti conciatori, dopo il terremoto del 1688, si erano svenati, per finanziare i pregevoli lavori del De Matteis e del Vaccaro. Tale sistemazione doveva avvenire (seconda contraddizione) proprio quando i conciatori di pelle vivevano il più brutto momento della loro storia; infatti, anche per una crisi europea del settore, stavano chiudendo gran parte delle loro industrie e di lì a poco, per un destino infame, non sarebbero rimaste neppure le tracce della loro laboriosa e nobile attività. Su progetto e disegno del laurentino Ciriaco Parenti, si diede inizio a un piano di lavoro, che prevedeva il completamento della copertura del torrente Carbonaro nella zona attigua alla Chiesa e al Condotto e la realizzazione di una fontana monumentale, recante a lato un’ampia scala con mastodontica gradinata. Il tutto doveva essere realizzato in pietra bianca locale. Ci si mise subito all’opera e, grazie alla laboriosa collaborazione delle maestranze locali, tra le quali spicca il bravo e noto scalpellino Lorenzo Di Donato, il 1886, come leggiamo sulla preziosa lapide posta nella parte alta del monumento, giunse a completamento una fontana grandiosa. L’attenzione dell’osservatore è subito attratta dalla sezione mediana della grande opera d’arte, quella da cui scaturiscono i fiotti d’acqua: tre mascheroni dominano la scena, uno centrale con due serpenti intrecciati, sormontati da una grossa conchiglia, e due laterali, costituiti da due conchiglie più piccole. Nella parte inferiore si slarga un’enorme vasca, adibita ad abbeveratoio per gli animali. Nella parte superiore fa mostra di sé una struttura massiccia, racchiusa tra lesene con capitelli in stile ionico. Al centro, nella parte più alta, spicca la lapide con la dedica “Al Popolo che qui unanime la volle – 1886”. (E qui registriamo la terza contraddizione: Si dedica al popolo un’opera monumentale di grande valore, non solo artistico, ma anche sociale e culturale, quel popolo che i ceti dominanti, appoggiati dalle istituzioni, sopraffacevano e trattavano veramente male). Ai lati della parte più alta, noi più anziani ricordiamo due fori circolari. In essi, nel corso degli anni ’60, per iniziativa del compianto Ubaldo De Blasio, cultore appassionato della storia di Guardia, dei suoi tesori e delle sue tradizioni, vennero murati i due stemmi delle famiglie più potenti che hanno dominato a Guardia, quella dei Sanframondo e quella dei Carafa.
E’ noto a tutti, però, che in origine quei due fori erano occupati da due quadranti di orologio, trafugati dai Tedeschi, nel corso della II Guerra Mondiale. Essi erano collegati a una macchina idraulica, che, sistemata nella parte posteriore della fontana, ne assicurava il funzionamento. Molto probabilmente l’orologio era uno solo con quadrante doppio: uno riportava l’ora canonica, quella delle preghiere, secondo la quale la prima ora era quella delle sei di mattina, la seconda quella delle sette e così via; l’altro riportava l’ora moderna. Costruttore dell’orologio fu un artista guardiese, il pregevole maestro Alfonso Sellaroli, che, formatosi a Firenze, aveva aperto una sua officina a Guardia, pare in Via Ratello. E qui, ad approfondire le conoscenze del grande artista, interviene la storia, diventata mito attraverso una Ballata in dialetto guardiese:
La Ballata del Maestro Alfonso Sellaroli
Màšt’Alfonzǝ Sallaròlǝ
‘Nǝ pòkǝ d’attenzjònǝ, bbélla ggéntǝ,
Un po’ di attenzione, bella gente,
‘nǝ pǝrzǝnàggǝ ghrwòssǝ v’apprǝséntǝ:
un personaggio grande vi presento:
Nàte e krǝscjùtǝ a la Wàrdja dǝ lǝ Sòlǝ,
Nato e cresciuto a Guardia delle Sòle,
sǝ tràtt’e Mašt’Alfònzǝ Sallaròlǝ.
si tratta del Maestro Alfonso Sellaroli.
Vèn’a rǝ mùnnǝ ‘na nòttǝ sénza vjéntǝ,
Viene al mondo una notte senza vento,
pòkǝ dòppǝ la metà dǝ r’Ottǝcjéntǝ,
poco dopo la metà dell’Ottocento,
da ‘na famìglja kǝ cǝ tèn’assàjǝ:
da una famiglia che (al bimbo) ci tiene molto:
Da la kasàta, fòrza évanǝ sǝllàrǝ!
Dal casato, forse erano sellai!
Fo-Fònzǝ è ankòra wagljǝncjéllǝ
Alfonso è ancora fanciullo
e ggjà a Firénza fa rǝ ‘ngǝgnarjéllǝ;
e già a Firenze fa l’ingegnoso:
a la škòla dǝ kìllǝ Golfaréllǝ
presso la scuola di quel famoso Golfarelli
sǝ ‘mpàra ‘nǝ mǝštjér’assàjǝ bbéllǝ.
impara un mestiere molto bello.
Ku r’impègnǝ dǝ vèrǝ Kuccǝlònǝ,
Con l’impegno di vero “Cuccilone”,
fatìk’e fa štremjént’e precisjònǝ:
lavora e fa strumenti di precisione:
Aurǝllòggǝ, sǝšmòghrafǝ, dǝjavǝlarìgljǝ,
Orologi, sismografi, diavolerie,
kǝ dǝ sapè fànnǝ vǝnì rǝ wrìgljǝ.
che di sapere fanno venire la voglia.
La škòla dǝ Firènza è dǝ soštanza,
La scuola di Firenze è di sostanza,
ma dǝ rǝ swòja séntǝ la mankànza
ma (Alfonso) dei suoi sente la mancanza
ed èqqwǝ k’a vìnt’ànn’ appèna fàttǝ
ed ecco che a venti anni appena compiuti
a la Wàrdja sǝ n’attòrna qwàttǝ qwàttǝ.
a Guardia ritorna quatto quatto.
Dìttǝ, ‘na fàtta; vǝcìn’a rǝ Ratjéllǝ,
Detto fatto, vicino al Ratello,
sjéntǝ rǝmùra dǝ màkǝn’e martjéllǝ.
senti rumori di macchinari e di martello.
E’ Màšt’Alfònzǝ, kòm’a ‘nǝ mahònǝ,
E’ il Maestro Alfonso, come un grande mago,
realìzza štrǝmjént’e precisjònǝ.
realizza strumenti di precisione.
Akkussì, ‘mpònt’a tànta qwampanàrǝ,
Così, in cima a tanti campanili,
vìt’aurǝlloggǝ nwòvǝ, bbéll’e kkàrǝ,
vedi orologi nuovi, belli e cari,
a la Lǝncǝjàta e a Sànt’Auštjànǝ,
all’Annunziata e a San Sebastiano,
a Sandrùp’e a Ripalimosànǝ.
a San Lupo e a Ripalimosani.
Rǝ nòm’e Màšt’Alfònzǝ Sallaròlǝ
Il nome del Maestro Alfonso Sellaroli
fùjǝ pǝ’ ttùttǝ, kòmǝ Dìjǝ vòlǝ,
si diffonde dappertutto, come Dio vuole,
da Pompèj’a Ghalatìn’a Marcjanìsǝ,
da Pompei a Galatina a Marcianise,
pǝ’ la Pùglja, la Kampanj’e rǝ Molìsǝ.
per la Puglia, la Campania e il Molise.
E’ premjàtǝ pùrǝ fòrǝ térra
E’ premiato pure fuori nazione
ku ‘na medàglja, sénza fa’ nǝscjùna wérra.
con una medaglia, senza fare nessuna guerra.
Rǝ nòmǝ Sallaròlǝ tàntǝ vàlǝ
Il nome Sellaroli tanto vale
a rǝ Mǝrkàtǝ Internazjonàlǝ.
al Mercato Internazionale.
Pǝ’ gljònt’e ròta, ghràzj’a rǝ Sǝgnòrǝ,
Inoltre, grazie al Signore,
kuràwǝ la famìglja ku kalòrǝ:
curò la famiglia con calore affettivo:
Rǝ fìglj’Alèzǝjǝ fatìka ku ppàpà,
Il figlio Alessio lavora col papà,
pur ìss’è ‘nghàmba, nǝn cǝ šta da fa’!
pure lui è in gamba, non c’è da fare!
A trentùn’ànne, ‘ncìm’a la Fǝntàna
A trentun anni, in cima alla Fontana
dǝ rǝ Pòpǝlǝ, fàtt’a pprètǝ sàna,
del Popolo, fatta interamente a pietra,
pjazzàwǝ dùj’aurǝllòggǝ šforescéntǝ,
piazzò due quadranti di orologi fosforescenti,
kǝ ‘nzégna vànn’a àqqwa kòm’a nnjéntǝ.
che insieme funzionano ad acqua come niente.
Qwàndǝ ’n’aurǝllòggǝ tu sjéntǝ sǝnà,
Quando un orologio di torre tu senti suonare
dǝ Màšt’Alfònzǝ tǝ sìdd’arrǝkurda’,
del Maestro Alfonso ti devi ricordare,
n’òmǝ sémplǝcǝ, kǝ tùttǝ sàpǝ fa’:
un uomo semplice, che tutto sa fare:
rǝ scjenzjàtǝ, rǝ ‘ngǝgnjér’e rǝ papà.
lo scienziato, l’ingegnere e il papà.
Ancora una volta trionfa la lezione foscoliana secondo la quale personaggi, eventi e cose possono essere anche abbattuti dal reo tempo che tutto distrugge, ma non completamente cancellati e dimenticati, perché interviene l’epos, il mito, che, attraverso il racconto e la poesia, tutto eterna. Insieme a questo grandioso monumento, infatti, sono resi eterni tanti momenti di vita del popolo guardiese, che, senza il ricordo della cara fontana, sarebbero passati in oblio e definitivamente cancellati. I primi eventi ad essere ricordati sono proprio quelli del 1886, legati alla inaugurazione del nostro monumento. Essi ci vengono “narrati” dai due ippocastani, che ancora oggi si ergono ai lati dell’opera architettonica e che furono piantati proprio nel 1886, nel corso della cerimonia organizzata per la inaugurazione dell’intero complesso. I due alberi diventeranno così importanti e cari per il popolo guardiese che subito più tardi, appena essi saranno diventati un po’ adulti, il posto sarà chiamato “Sòtt’a rǝ Pjéta dǝ Pagljòkkǝlǝ”. E vale sicuramente la pena di ascoltarlo questo epico “racconto” dei due ippocastani, almeno nella prima parte, quella che descrive l’inaugurazione del grandioso complesso e i primi giorni di vita dei due strani testimoni:
Sòtt’a rǝ Pjéta dǝ Pagljòkkǝlǝ 1
(Sotto gli Alberi di Ippocastani)
Nǝ jwòrnǝ dǝ la fìn’e r’Ottǝcjéntǝ,
Un giorno della fine dell’Ottocento,
a lǝ diécǝ, sòtt’a n’àrja senza vjéntǝ,
alle ore dieci, sotto un’aria senza vento,
kunzǝlàtǝ da rǝ swòn’e la kampàna,
consolati dal suono della campana,
cǝ chjantjérnǝ a rǝ fjànk’e ‘sta fǝntàna.
ci piantarono ai lati di questa fontana.
La ggént’èva vǝnùta ‘mprǝggǝssjònǝ
La gente era venuta in folla enorme
da rǝ prìmǝ a r’ùtǝmǝ rjònǝ:
dal primo all’ultimo rione:
Vǝcchjarjéllǝ, pǝccǝrìll’e d’ògn’aità
Vecchietti, piccolini e d’ogni età
facévanǝ vòtta vòtta pǝ’ wardà.
facevano a spintoni per guardare.
‘Nnànz’a tùttǝ sìndǝqw’e assessòrǝ
….
1 Pagljòkkele: plurale di “pagljòkkela”, la ruvida sferetta, frutto dell’ippocastano; il termine presuppone un precedente *pagljùccola, diminutivo di “pagliuca”, perché sembra essere fatta di “paglia”.
….
Davanti a tutti sindaco e assessore
vasàvanǝ la màn’a Mǝnzǝgnòrǝ.
baciavano la mano a Monsignore.
Kǝ bbǝllèzza fu tùtta la fǝnzjònǝ,
Che bellezza fu tutta la funzione,
ku la prétǝk’e la bǝnǝdǝzjònǝ!
con la predica e la benedizione!
S’abbjàv’akkussì la vìta nòstra
Cominciava così la vita nostra
e attwòrnǝ cǝ ggǝràva kòm’a ggjòstra
e intorno ci girava come (una) giostra
tùttǝ kèllǝ k’asìšt’a ‘nǝ paèsǝ,
tutto quello che esiste in un paese,
addò trwòvǝ rǝ fàuz’e rǝ kurtèsǝ.
dove trovi il falso e (il) cortese.
Rǝ pòšt’è bbéll’e propj’akkunzǝnéntǝ
Il posto è bello e proprio adatto
sǝ vwo’ sapè rǝ fàttǝ dǝ la ggéntǝ:
se vuoi sapere i fatti della gente:
Nòtt’e jwòrnǝ pwò tǝnè sòtto kontròllǝ
Notte e giorno puoi tenere sotto controllo
rǝ ‘ntìštǝ, rǝ qwalèscj’e rǝ jojòllǝ.
l’intelligente, l’ebete e l’idiota.
Tànt’è vvèrǝ kǝ bbàšta kǝ tǝ ggìrǝ
Tanto è vero che basta che ti giri
e tùtt’attwòrn’a tte ku r’wòcchj’ammìrǝ:
e tutto intorno a te con gli occhi ammiri:
A mmànǝ drìtta fin’a la Pǝrtélla,
A mano destra fino alla Portella,
a mmancìna ‘na chjésja e ‘na vìja bbélla.
a sinistra una chiesa e una via bella.
Dǝrempéttǝ, ‘nǝ palazzǝ sǝgnǝrìnǝ
Dirimpetto, un palazzo signorile
e vǝcìnǝ tànta bbàrr’e maghazzìnǝ;
e nei pressi tanti bar e negozi.
Sǝ fàjǝ djécjǝ pàss,’ént’a ‘na bbòtta,
Se fai dieci passi, in un batter d’occhio,
tǝ trwòvǝ jùštǝ 2 llà, ‘Nkòpp’a la Pòrta.
ti trovi proprio là, in Piazza Castello.
A ffìn’a kǝ avàmǝ ggǝvǝnjéllǝ,
Fino a che eravamo giovinetti,
cǝ trattàvanǝ kòm’a abbǝtjéllǝ 3
….
2 Jùšte: avv. letteralmente “giusto”. Si ricorda che la sibilante “s” davanti a consonante diventa “š” (“sc” dell’italiano “scena”); 3 Abbetjélle: s. m. letteralmente “abitino”(diminutivo di “abito”). E’ lo “scapolare”, cuscinetto in miniatura che si appendeva al collo dei bambini: conteneva immagini di Santi e oggetti metallici portafortuna, utili ad evitare il malocchio e a tenere lontane le janare. Era un oggetto prelibato,”prediletto” e da qui il significato figurato dell’espressione ironica “De tè me n’àggj’a fa’ ‘n’abbetjélle!” = “Di te me ne devo fare un abitino!” che la mamma lamentandosi rivolge al figlio che fa poco per meritarsi l’affetto e l’ammirazione materna.
ci trattavano come scapolari (prediletti)
La rèzza ‘ntùrnǝ ‘ntùrnǝ cǝ mettjérnǝ,
La rete (protettiva) intorno intorno ci piazzarono,
qwànta kùra sìja d’astàtǝ kǝ dǝ vjérnǝ!
quanta cura sia d’estate che d’inverno!
E nùja krǝscjavàmǝ pàrǝ pàrǝ,
E noi crescevamo pari pari (alla stessa maniera)
kòm’a ggeméllǝ o a ddùjǝ kumpàrǝ;
come gemelli o come due compari;
pùrǝ rǝ nòmǝ ‘nǝ jwòrnǝ cj’ànnǝ dàtǝ:
anche il nome un giorno ci hanno dato:
A me Paskàrǝ e Dǝmìnǝqw’a kill’àtǝ.
A me Pasquale e Domenico a quell’altro.
L’epico “racconto” dei nostri due personaggi continua per altri sette episodi, raccontando un po’ tutto della vita di questo laborioso popolo, ma noi non vogliamo tediarvi oltre; ci fermiamo qui e vi ringraziamo per la pazienza che avete mostrato soprattutto nel lavoro di lettura e di interpretazione dei brani espressi in una lingua così complessa come quella guardiese.
Silvio Falato