Verso la fine del X secolo, i Normanni scesero nella penisola italiana e la occuparono progressivamente sostituendosi ai Longobardi. Questi avevano creato un diffuso sistema di controllo del territorio basato sui casales, ovvero centri di potere locali su piccoli nuclei rurali, che “gli uomini del Nord” potenziarono ulteriormente sia per proteggerne la popolazione di agricoltori, sia per impedire che questa, rifugiandosi altrove, abbandonasse la lavorazione dei campi. Vennero così creati nuovi sistemi difensivi costituiti da spazi chiusi e fortificati sulle cime di colli o in luoghi naturalmente protetti al fine di controllare, sfruttare e difendere i nuovi possedimenti. Una operazione che riporta a quella, rivoluzionaria, della fine del II sec. a.C., con la cultura romana che incomincia a spandersi nei territori sanniti “romanizzati”, fondando a valle le prime urbs e cambiando di fatto le abitudini degli italici. Circondate da mura, le nuove città costruite secondo lo schema tipico di Roma, sancirono il passaggio dal mondo “disordinato” e “selvaggio” dell’ager, degli insediamenti diffusi, del territorio, tipico dei sanniti, a quello ordinato e civile del centro urbano. La cortina muraria non era, però, una barriera impenetrabile: attraverso le porte, consentiva il passaggio regolato di uomini e merci, mettendo in comunicazione la città con il suo territorio. Un nuovo concetto di città, di cui Sepino e Telesia possono essere il simbolo molto, molto vicino alla nostra storia. Ma torniamo ai Normanni e Cerreto Vecchia.  La funzione del castello, che di fatto riportò in alto la popolazione, era quella di sorvegliare e al contempo rappresentare un baluardo di difesa e un centro di controllo del territorio. La “torre” costituiva la zona meglio fortificata, una sorta di castello nel castello, ed aveva la porta di accesso in alto. La “turris magna” era realizzata per servire sia come punto di osservazione che da ultimo rifugio, nel caso in cui il resto della fortificazione dovesse essere occupata dal nemico. Il “dongione”, (dal latino “dominus”, cioè “signore”), era dunque la torre più alta di un castello, e costituiva il nucleo forte dello stesso. La nostra torre, prima che il devastante terremoto del 1688 la facesse in parte crollare nonostante fosse di forma rotonda e dallo spessore della muratura che superava i 3 metri, era esterna al castello e ad essa si accedeva da una scala interna alle mura del maniero e da un ponte levatoio. Qui i Sanframondo, i conti normanni di Cerreto, come ampiamente documentato dal prof. Pacifico Cofrancesco, nel 1382, ospitarono Luigi d’Angiò che, dopo essere stato incoronato ad Avignone dall’antipapa Clemente VII, aveva approntato un corpo di spedizione per entrare in Italia e ristabilire l’ordine dinastico voluto dalla defunta regina. Inseguito dall’esercito di Carlo III, il re si recò a Cerreto per rifugiarsi nel più sicuro Castello. Altra curiosità del nostro Dongione era il piano terra che, adibito come di prassi a cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, almeno fino al XVI secolo quando la torre fu trasformata in carcere della contea e pure la cisterna trasformata in cella nella quale si veniva calati dall’alto! Alcune pietre “graffite” testimoniano la presenza di carcerati che, per passare il tempo, disegnarono degli schemi di gioco sulle pietre. Una autentica pagina di storia nascosta a tutti, non fruibile, quindi “tamquam non esset”, dalle assurdità di una tutela “a macchia di leopardo” che trasforma gli spazi dell’architettura in una scultura vivibile solo dall’esterno e “comprensibile” solo alla stretta cerchia degli esperti. Eppure l’intervento proposto era assolutamente compatibile. Un concetto di cultura ”elitaria” che non capisco, evidentemente per miei limiti. Non mi (ci) resta che piangere!

Lorenzo Morone

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