Vinti dai Romani a partire dal III secolo a.C., i popoli di origine sabina furono costretti ad abbandonare i primi insediamenti sorti sulle sommità delle montagne e delle colline per urbanizzare con interventi pubblici e privati le zone di pianura. I Pentri, più degli altri popoli della stessa stirpe, furono favoriti nella ricostruzione essendo stati alleati dei Romani, soprattutto in occasione della presenza di Annibale in Italia.
E se sul versante orientale del Tifernum Mons i romani costruirono una intera città, collocata in pianura dopo la distruzione, nel 293 a.C., con la III guerra sannitica, dell’insediamento sannita-pentro di Saipins, sul versante opposto del Matese sono evidenti le tracce della tecnologia romana, a partire dai ponti sul Titerno che migliorarono, secondo consolidata politica romana, il tratturo che conduceva appunto a Sepino, unendo la pianura Campana a quella Dauna. Nell’ambito di questa politica di inclusione delle terre sannite nel territorio romano, il territorio Pentro usufruì di uno stato di “sovranità limitata” che favorì la ricostruzione civile e religiosa, quest’ultima testimoniata dagli interventi in favore dei santuari già esistenti. E’ sempre stato triste, però, constatare come nei portali culturali, turistici, della Soprintendenza, nelle tante pubblicazioni attente e puntuali degli amanti della storia dei sanniti, non c’era e non c’è traccia del tempio che i Pentri ci hanno lasciato sui nostri monti, spartiacque tra la touto Pentra e quella Caudina che aveva colonizzato la pianura Campana oltre i confini naturali dei fiumi Calore e Volturno.
Ecco perché, nel 2007, con una certa enfasi dovuta al ritrovamento “ufficiale” di ciò che, abusivamente e con la complicità di una ditta, avevo accertato nel 2002, diedi alla stampa questa notizia: “… gli scavi archeologici coordinati dal Dr. La Rocca e dalla Dott.ssa Luigina Tomai, della Soprintendenza Archeologica di Salerno, e sotto la sorveglianza del Dr. Gianluca Punzo, hanno confermato che quella che era solo l’ipotesi di un…visionario, è invece la realtà: un tempio Pentro, unico in Campania, c’è e si cela, in parte, sotto la Chiesa della Madonna delle Libera di Cerreto. Oggi ci sono le prove, date dagli scavi “ufficiali e documentati” di fronte alla quale anche gli scettici dovranno ricredersi ed abbandonare i sorrisini e le battute ironiche. Come se certe cose fossero importanti solo per me!”.
Il ricordo non è dettato da futili motivi autocelebrativi, o dal volersi togliere qualche sassolino, ma dalla considerazione che mi viene guardando come i “cugini” del nostro Tempio, che hanno la fortuna di essere “residenti e domiciliati” in Molise, godono di un trattamento “privilegiato e dovuto” da parte di studiosi, Regione, Soprintendenza, Università e, dulcis in fundo, per l’economia locale, Tour Operators. Sono tanti i percorsi turistici e didattici che ne sfruttano le potenzialità, e spingono i locali ad investire in attività collegate: BB, ristoranti, produzione e vendita di gadget etc. Come sempre, pure lì ho raccolto scontento perché: ”si potrebbe fare di più”. Ma, obiettavo, se vi lamentate voi, il nostro Tempio che dovrebbe dire? Che colpa ne ha se chi tracciò i confini regionali avanzò il territorio Campano oltre i fiumi, fino ai monti, escludendoci dal Molise per inserirci “ope legis” in una zona che, enclave molisana in terra straniera, è stata trascurata dai primi perché…figli ingrati, dai secondi perchè poco visibile dalle stanze dei bottoni che affacciano sul mare piuttosto che sui monti?
Eppure i caratteri “somatici” del nostro tempio, la storia, gli indizi disseminati a iosa qua e là sul territorio, lo pongono al centro di una zona, la Madonna della Libera, che è solo la punta di diamante di un sito archeologico che abbraccia Molise e Campania, da monte Cigno con la Rocca e le fortificazioni sannite, Monte Coppe e i tanti tanti recinti (Saipins….), il Titerno con il papà di tutti i ponti ad “arco”…e qualche figlio, e poi tantissime “pietre parlanti” nel quadrilatero Sepino-Cerreto-Morcone-Pietraroja.
Eppure, ad eccezione di Pietrabbondante, lo spettacolare santuario che aveva un carattere “nazionale” per le attività svolte dai magistrati supremi dello stato, il tempio Cerretese non è molto diverso dai parenti stretti di Vastogirardi, Schiavi d’Abruzzo etc. Anzi, ha qualcosa in più: è l’unico situato sul versante occidentale del Tifernum Mons. Era sicuramente importante per le riunioni delle Tribù, come lascia intendere il nome della zona: Cominium. Il toponimo, presente in tutta l’area osco-sabellica dell’Italia antica, sembra riferirsi a località (Cominium – Caudium: territorio, non città: i sanniti non mi sembra fossero costruttori di città!) in cui venivano convocate le adunanze (comitia) delle popolazioni di tipo osco; probabilmente ne esisteva uno per ogni popolazione o tribù (touto, in osco), caratterizzato dalla presenza di un luogo sacro e di uno spazio per le adunanze. Un nome che univa tutta la zona, da Pietraroja a Cerreto, ben diversamente da certi “comitia” di oggi in cui è la divisione a farla da padrone. Chissà perché.
Il tempio, collocato tra la Rocca di Monte Cigno, una autentico baluardo difensivo a protezione del tratturo, e gli innumerevoli recinti di Monte Coppe, fu costruito secondo lo schema adottato per gli altri templi…separati di fatto: una pianta essenziale, una cella preceduta da colonne, in una forma molto arcaica la cui semplicità va ricercata nella struttura dei primi templi greci. Era assolutamente simile a quello di Vastogirardi: stesse misure del podio (m 17,92 X 10,81), stessa altezza (m 1,80), stesso orientamento: (NW-SE, azimut 158°). Intorno al tempio si vedono molti blocchi ritrovati sotto il terreno circostante. Bella è la fontana realizzata con suoi pezzi, e degne di tanta attenzione sono le stratificazioni, documentate e poi ricoperte in attesa di tempi migliori, stratificazioni risalenti, a dire degli esperti, a parecchi secoli prima.
Chiudo con una descrizione tratta da: “Le dodici province del Regno di Napoli” Stella XXXII-del segno di Ariete, 1715 – Ordine dei Padri Predicatori: “…poco discosto dalla sopra descritta Terra di Cerreto sollevasi una collina, che ancora porta, e mantiene l’antico nome di Campo di Fiore, che ottenne, come si ha per tradizione antichissima, da un tal Capitano Romano detto Fiore, il quale vi piantò l’esercito, quando guerreggiò con l’Imperadore Licinio, che in una forte, ed inespugnabile Rocca erasi fortificato, e di questa si veggono in piedi alcune reliquie, tenendo ancora l’antico nome di Rocca di Licinio. In questo colle dunque era un’antichissima Chiesa fabbricata di grosse pietra quadrate, e poste una sopra l’altra senza calcina, delle quali pietre fino a qualche tempo fa ne veggono alcune sparse per quelle campagne.” La descrizione della antichissima chiesa fatta di pietre squadrate sovrapposte senza malta, avrebbe dovuto indurre gli studiosi ad identificarla tranquillamente con il “ναός”, la cella del tempio pentro di ispirazione ellenistica. Ma tant’è…la tradizione ha solo ingenuamente trasmesso il nome della zona: “Campo di Fiore”, al Tempio che, con Flora, non ha alcuna relazione. Proprio nessuna. Più credibile la dedica a Mefite, la divinità italica legata alle acque, invocata per la fertilità dei campi e per la fecondità femminile, come mi sembra abbia documentato, oltre all’Astroarcheoclub, pure Antonello Santagata. Sono un semplice appassionato, un architetto che sfrutta le ricerche degli storici, ma la Dea Flora sta al Tempio cerretese come Valle Antica sta a Vallantico: ma che c’azzecca?
P.S. Ringrazio le mie fonti privilegiate: i colleghi architetti Oreste Gentile e Franco Valente.
Lorenzo Morone