Voglio raccontare una breve ma intensa storia di ‘buona-cattiva’ sanità. Protagonista mio fratello, un uomo di 57 anni che lo scorso settembre si ritrovava già da qualche mese a soffrire di febbre recidivante con infezione urinaria che di tanto in tanto ricompariva.
Tenuto sotto controllo dal nostro urologo di fiducia, tutto si protraeva con qualche difficoltà ma senza eccessivi problemi, con ecografie negative per quel che riguardava la calcolosi.
Nel giro di pochi giorni – se non di ore – il quadro generale è cambiato drasticamente. Mio fratello ha cominciato a soffrire di febbre alta con dolore fisso e lancinante al fianco sinistro. Dopo due giorni di terapia domiciliare nei quali stava sempre peggio ci viene consigliato un ricovero per indagini e accertamenti del caso in una clinica della zona. Qui gli viene diagnosticata una setticemia dovuta ad un calcolo renale, in un rene a forma di ferro di cavallo.
A questo punto, visto un ulteriore peggioramento, la clinica ci propone di spostare mio fratello in un reparto di nefrologia, offrendoci come alternative la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo e il Cardarelli di Campobasso. Noi, inconsapevoli, abbiamo optato per spostarlo a San Giovanni Rotondo. Qui, una volta giunto in reparto, è rimasto ricoverato per ben 20 giorni.
Nei primi giorni, è stata confermata la diagnosi della casa di cura e, data l’apposizione di una nefrostomia, gli è stato posizionato un drenaggio. Dato il miglioramento delle sue condizioni, è stato dimesso con prenotazione nel reparto di urologia per sottoporsi poi ad un intervento chirurgico. Inoltre, nel giro di un mese avrebbe dovuto tornare in ospedale per controllare la nefrostomia e il drenaggio.
Il mese trascorre senza notizie da parte della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (ora di mesi ne sono passati quasi sei!). Le infezioni urinarie continuano, così come l’antibiotico terapia. Inviamo via fax gli esami delle urine e urinocoltura ma ci viene chiesto di avere pazienza e veniamo rassicurati che ci avrebbero chiamato il prima possibile.
Ci rechiamo quindi in visita privata da un professore di quell’ospedale, chiedendo un intervento urgente. Ma ci viene risposto che no, quella di mio fratello non è un’urgenza. Il 27 dicembre ci rechiamo direttamente al Pronto Soccorso di San Giovanni Rotondo vista la febbre altissima, ma niente: viene rimandato indietro.
Ai primi di gennaio, ci accorgiamo che la nefrostomia non drena più e ci rechiamo allora al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Benevento. Qui sistemano tutto, facendo un lavaggio. Tuttavia, ci chiedono giustamente di attendere la chiamata da San Giovanni Rotondo, in quanto è lì che si trova in lista di attesa.
Le sue cattive condizioni, però, ci portano a rivolgerci ad un altro medico, stavolta all’Ospedale Cardarelli di Campobasso. Qui, ci rechiamo il 7 gennaio in visita e – vista la reale urgenza della situazione – mio fratello viene ricoverato quattro giorni dopo, per poi essere operato il 21 gennaio. Tutto va finalmente per il meglio e, dopo una settimana, è tornato a casa – ringraziando il Signore – senza aver avuto alcun problema.

Volevamo raccontare questa nostra storia: un’odissea ai danni di un povero paziente che dimostra come, quelle che per alcuni professori non sono né urgenze né interventi di prima necessità, sono in realtà interventi chirurgici che non possono attendere.
In tutto questo, mio fratello è ancora in lista d’attesa a San Giovanni Rotondo dopo più di 5 mesi. Chissà, se avessimo atteso loro, quanti altri antibiotici avrebbe dovuto ancora assumere prima di essere chiamato. Inoltre, in tutto quel tempo, si è ritrovato a non poter fare il minimo sforzo, senza nemmeno poter camminare a causa di un tubo che gli usciva da un rene e una busta urine sempre piena, con buona pace delle sue condizioni morali oltre che fisiche.
Auguriamo al professore in questione tantissime urgenze.

Carmela Guarino

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