Fu il papa beneventano Alberto da Morra (Benevento 1100- Pisa 1187) a bandire la terza crociata dopo che il temibile Saladino aveva riconquistato Gerusalemme. Asceso al soglio pontificio con il nome di Gregorio VIII fece appena in tempo ad indire la crociata che solo due mesi dopo, nel dicembre del 1187, morì succeduto da Clemente III che la continuò.

Ogni Signore cristiano, proporzionalmente alla sua ricchezza, era tenuto a contribuire alla formazione dell’esercito di Dio e Guglielmo II di Sanframondo, Conte di Cerreto, Limata, Guardia, Faicchio, San Lorenzo, Massa, Cusano e Pietraroja fornì al Pontefice cinque cavalieri armati (l’equivalente, in una guerra moderna, di cinque pezzi di artiglieria pesante) oltre a partecipare egli stesso che si mise alla testa di quel drappello.

Insieme all’artiglieria pesante si unì alla Guerra Santa anche molta fanteria. Gente del popolo, di solito devoti e credenti che, con la promessa dell’indulgenza plenaria e di avere assicurato un posto in Paradiso, pur non avendo una propria armatura (figuriamoci un proprio cavallo) partecipava alla spedizione al motto “Dio lo vuole” con la certezza di contribuire alla sua maggior gloria. E’ provato che dalle terre dei Sanframondo, in particolare da Cusano e Cerreto, nel 1190 partirono per la Terra Santa molti crociati.

E qui comincia la leggenda. Tra i tanti soldati con la croce cucita sul petto che affrontarono il lungo e pericoloso viaggio per liberare Gerusalemme, vi era anche il giovane Barbato Castello da Cusano. Barbato partì dal suo paese con l’aperta speranza che, grazie alle sue gesta in Terrasanta, avrebbe conquistato un posto nel regno dei Cieli. Nel frattempo, in quelle terre, riuscì a conquistare il cuore di una fanciulla.

S’innamorò, ricambiato, della figlia del custode del Tempio di Gerusalemme dove era conservata la corona di spine che cinse la testa del Cristo sulla croce. Quando il crociato, che nel frattempo si era unito ai Cavalieri Templari (l’ordine dei famosi monaci-guerrieri nato con l’intento di proteggere i pellegrini in Terrasanta) dovette fare ritorno in patria, la ragazza come pegno d’amore gli donò tre di quelle spine che lui nascose tra le pieghe della mano. Qualcuno dice che la ragazza gli raccomandò di nasconderle tra i capelli per evitare i controlli. Il ritorno a casa di Barbato fu una vera odissea perché invece di sbarcare in Puglia e di lì, attraverso l’antico tratturo della transumanza, giungere rapidamente a Cusano, facendo il cammino inverso del viaggio d’andata, sbarcò nella lontana Venezia.

Appena giunto nella città dei Dogi fu accolto da un primo prodigio: le campane della città cominciarono a suonare a distesa senza mano umana. Lo scalpore della cosa attirò le attenzioni delle autorità che, venuti a sapere del prezioso carico che egli trasportava, pretesero che lasciasse in dono alla città una delle tre sacre reliquie. Lo stesso avvenne nel prosieguo del viaggio verso Roma dove, al suo ingresso in città, le campane presero a suonare senza apparente motivo. Anche in questo caso gli incaricati del Papa costrinsero il cavaliere a lasciare sul posto una seconda spina.

Ma Barbato voleva a tutti i costi portare al suo paese natio almeno una di quelle sacre reliquie affinché proteggesse i suoi compaesani da catastrofi, epidemie e siccità, e anche perché, nel contempo, il suo nome restasse impresso per sempre nella loro memoria.

Così proseguì il suo cammino, questa volta per strade interne attraverso i monti, per evitare altri spiacevoli incontri. Ma giunto all’altezza di Cusano, precisamente in località Filette, il Templare che ancora era abbigliato da Crociato, venne affrontato da un gruppo di uomini armati. Nel tentativo di fuga precipitò insieme al suo cavallo da un alto dirupo. Nonostante l’altezza, tanto che nella roccia rimasero impresse le impronte del cavallo, ne uscì miracolosamente illeso. Quel luogo da allora è ancora conosciuto come “Zumpo di Barbato”. Il prodigio delle campane che suonavano da sole si verificò anche quando, finalmente, giunse a Cusano, nei pressi del santuario benedettino di Santa Maria del Castagneto. Così Barbato comprese che doveva affidare alla custodia dei monaci dell’abbazia la terza ed ultima Spina Santa.

La consegnò in una modesta custodia di cuoio dove da una parte era inciso la figura di un pellegrino con bastone e campanella e dall’altra, racchiusa in un cerchio, una T scritta in greco, una tau, che per i primi cristiani era il simbolo di Cristo ripreso, poi, dai Cavalieri Templari che ne fecero il loro emblema. Fin qui il tradizionale racconto. Attualmente la Spina Santa è custodita dalla chiesa di San Giovanni Battista in Cusano in un nuovo reliquario d’argento massiccio, fatto forgiare nel ‘600, anche se viene ancora conservato l’astuccio originario. Quella di Cusano, comunque, non è l’unica spina sacra presente in Italia. La storia della corona inizia con Elena, la madre dell’imperatore Costantino, che nel 320 riuscì a portare alla luce la “vera croce” ed i rami di spine che cingevano il capo di Cristo, portando con se a Roma parte della croce e lasciando a Gerusalemme l’intera corona di spine. Nei secoli le spine diminuirono man mano di numero perché ogni tanto ne veniva donata qualcuna a qualche sovrano o a qualche vescovo importante finché, nell’XI secolo, fu trasferita a Costantinopoli. Nella capitale bizantina rimase meno di due secoli fino a quando l’imperatore Baldovino II la vendette a dei mercanti veneziani. Fu subito riacquistata dal Re Luigi IX di Francia che la portò definitivamente a Parigi.

Nel suo lungo peregrinare, però, la corona fu sempre più privata delle sue spine, per distribuirle a chiese, nobili e prelati, tanto che in quella conservata in Francia ne residuano ben poche. Solo in Italia si contano, oltre Cusano, ben 38 chiese e santuari che custodiscono le Sacre Spine (da Padova e Milano che ne hanno tre, a Ravenna che ne ha due fino ad Ariano Irpino e Montefusco in provincia di Avellino e Giffoni Valle Piana in provincia di Salerno che ne possiedono una ciascuno) in aggiunta a varie altre in Francia. Incerto è il numero di quelle sparse per il mondo.

Intanto la tradizione popolare, suffragata da testimonianze documentate dell’epoca, riferisce di vari miracoli e prodigi attribuiti al frammento sacro di Cusano, oltre ad attestare di aver protetto, da allora, in più di una occasione la comunità alle falde del Matese. Un primo prodigio è documentato essere avvenuto nel 1693 “essendosi detta Spina per ben due volte illuminata a guisa di candela mentre si portava in processione”.

Lo stesso fenomeno si ebbe nel 1710, durante la processione in onore di Sant’Onofrio, quando per due volte la Spina si illuminò “come a lume di candela”.

Infine nel 1805, durante una serie di terribili scosse telluriche che, iniziate il 26 luglio, si protrassero fino al 3 di agosto. I cusanesi, in quella occasione, supplicarono la loro sacra reliquia portandola in processione verso la chiesa di Santa Croce al Calvario (questa chiesa era stata eretta dalla gente di Cusano in segno di ringraziamento per il miracolo di essere scampati, in gran parte, al tremendo terremoto del 1688 che distrusse tutt’intorno Civitella, Cerreto e Pietraroia). Durante quel rito religioso la punta divenne bianca e cominciò ad aprirsi come se volesse germogliare. Il terremoto cessò quel giorno stesso, il miracolo venne documentato da testimonianze giurate fornite davanti ad un notaio ed il popolo fece voto che avrebbero ringraziato il Cielo con una solenne processione di penitenza che ancora si svolge, con folta presenza di fedeli, il 3 di agosto di ogni anno.

Chissà se attualmente ci sono a Cusano degli eredi di Barbato Castello, di certo non risulta che qualcuno lo vanti come antenato e dopo un’occhiata alle Pagine Bianche troviamo cognomi come Castellino, Castelli, Cassella ma nessun Castello. Forse con il tempo il cognome si è modificato o forse si è estinto naturalmente. Probabilmente, però, i due obiettivi che Barbato si era proposto li ha, in qualche modo, raggiunti.

Quello di essere ricordato nel tempo. Infatti, nove secoli dopo, nel 2015, i moderni templari della Confraternita Jaques De Molay (ultimo Gran Maestro dei monaci-cavalieri) lo hanno ricordato dandosi appuntamento a Cusano per commemorare il loro antico compagno d’armi. Nonché quello di proteggere, e non solo da catastrofi, i suoi compaesani che hanno fama di essere “aiutati” in ogni loro iniziativa o manifestazione (che sono sempre coronate da grande successo), considerando la costante clemenza del tempo e la numerosa partecipazione di gente.

Interpretazione un po’ riduttiva perché non individua il vero segreto di quei successi che consiste, in realtà, in intuito, capacità organizzativa e molto, molto lavoro.

Antonello Santagata


Bibliografia

  • Donatello Camilli- Il profumo di arepo- La Spina Santa di Cusano Mutri e il crociato Barbato-Ed. Art 2013
  • Vito Antonio Maturo- la Spina Santa di Cusano Mutri- 1978

 

- Annuncio pubblicitario -
Articolo precedenteLa squadra di mister Parisi festeggia la vittoria nella finale play off
Articolo successivoCerreto Sannita: convegno degli Assistenti Sociali

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.