Nel ‘600 e nel ‘700 almeno due paesi della nostra zona non vivevano solo delle classiche tre “A” (agricoltura, allevamento e artigianato) ma avevano sviluppato, a partire comunque dalle risorse del territorio, delle vere e proprie industrie ante litteram con sviluppo di un settore manifatturiero e conseguente indotto commerciale. Si tratta delle aziende dei conciatori di pelli di Guardia Sanframondi e dell’industria dei panni lana di Cerreto Sannita.
Già dalla seconda metà del 1500 i cerretesi possedevano numerose pecore che andavano a svernare in Puglia, così numerose che nel territorio di Otranto si costituì una locazione (cioè un pascolo dove si pagava un affitto) denominata Locazione di Terra d’Otranto per Cerreto. I pastori cerretesi portavano in quei pascoli circa 30.000 pecore ma erano diventati così ricchi e importanti da avere il “privilegio” di essere soggetti direttamente alla giustizia del Re e non a quella del Duca, così per non avere problemi con le regie autorità, che gestivano anche i conti e facevano il bello e cattivo tempo, pagavano l’affitto per un equivalente di 200.000 pecore.
Nel ‘600 la pastorizia raggiunse il massimo splendore. La redditizia attività continuò ad incrementarsi ed il numero delle greggi aumentò fino ad arrivare, facendo un po’ di calcoli su quanto scrive Domenico Franco, ad un numero che superava le 200.000 pecore con quasi 2.000 giumente. I proprietari erano privati cittadini ma anche Cappelle e Congregazioni. La crescita fu così tumultuosa che si arrivò all’emanazione di una legge che proibiva di destinare il terreno del territorio cerretese all’agricoltura, se non per uso privato, dovendolo destinare tutto al pascolo del numero crescente di animali.
Alla fine di quel secolo tre grandi catastrofi, però, portarono ad un temporaneo declino di quelle attività: un epidemia che colpì il bestiame, la mancanza di leggi protezionistiche che fecero invadere il mercato da parte di tessuti di altri Stati, ed il terremoto che, nel 1688, colpì principalmente Cerreto.
I cerretesi riuscirono a superare le tremende avversità ma le basi dell’economia erano cambiate. I piccoli proprietari di pecore scomparvero e le grosse greggi rimasero in mano di pochi, ricchi privati e soprattutto di Congregazioni e Chiese. Abbandonata la pastorizia, i piccoli pensarono piuttosto a riscostruirsi le case, cosa, d’altronde, che fecero anche i facoltosi signorotti, che edificarono i loro palazzi così come fecero le Congregazioni, che ricostruirono nella nuova Cerreto le chiese distrutte dalla calamità.
Sorsero così la chiesa di San Martino finanziata dalla ricca confraternita del S. S. Corpo di Cristo, quella di Sant’Antonio fatta erigere dagli altrettanto ricchi padri conventuali, quella di Santa Maria di Costantinopoli con i soldi della omonima Congrega, il Convento delle Clarisse, molto agiato anche per le doti in denaro delle monache, ed in ultimo la Cattedrale fatta costruire dalla più povera Congrega di San Leonardo.
Alla ricostruzione contribuirono sia il Vescovo di allora, Mons. Giovan Battista De Bellis, che chiese fondi al Papa ottenendone, in verità, pochi per la ricostruzione della cattedrale, che i Duchi Carafa, Conti Signori di Cerreto, che sostennero un discreto impegno economico. Ma principali protagonisti furono i cittadini che si diedero da fare per ridarsi un tetto accedendo, in particolare chi aveva perso proprio tutto, a dei mutui “a tasso agevolato” predisposti dal Duca.
La “generosità” dei Carafa si spiega, dunque, in parte perché erano solo dei prestiti per cui i debiti contratti dovevano essere restituiti e, in gran parte, perché il paese rappresentava per i Conti uno delle maggiori fonti di introito, attraverso gli incassi diretti e le tasse, grazie alla ricchezza raggiunta dai cerretesi.
Dopo il terremoto, il numero di pecore non arrivò a quello del secolo precedente ma era comunque considerevole, mentre continuò a prosperare l’industria ed il commercio della lana che, parallelamente alla pastorizia, si era accresciuto in quei secoli.
Un numero così grande di pecore, infatti, poneva il problema dell’utilizzo della lana. I cerretesi si organizzarono in proprio creando una vera e propria industria dei panni lana.
Le decine di tonnellate di lana ottenute annualmente, venivano lavorate in loco e ciascuno dei 7-8.000 abitanti che contava all’epoca Cerreto aveva la sua mansione.
La lana veniva prima unta con olio poi cardata poi filata ed infine tessuta. Il panno così ottenuto veniva ancora lavorato, immerso in acqua e soda per infeltrirlo attraverso delle antiche macchine industriali dette “gualchiere”. In queste macchine il panno veniva più volte sbattuto fino ad ottenere la “follatura” che faceva restringere e compattare il tessuto il quale successivamente veniva messo ad asciugare sopra a degli attrezzi in ferro.
Infine la pezza, dopo essere stata rifilata con delle forbici, veniva inviata in tintoria dove lavorava un personale altamente qualificato, quindi, ben pagato. Vi erano la tintoria ducale (l’attuale “Tenta”), quelle comunali e parecchie private.
Ultima lavorazione era la “cartonatura” che consisteva nel passare le pezze tra due piastre di ferro roventi coperte da cartoni per conferirle un aspetto liscio e lucido. Una importante “cartoniera” stava al centro del paese nuovo nel quartiere ancora detto “Cartenera”.
I panni che non venivano venduti grezzi passavano alle aziende di confezionamento di abiti. Nelle sartorie venivano cuciti corpetti, mantasini, scolle, sottane, mantelli e dei giubbotti misto lana e seta. Non mancavano gli ordinativi per le divise militari.
Si può immaginare quante persone erano dedite a queste lavorazioni. I pastori tosavano, le donne cardavano, filavano e tessevano, i maschi erano addetti alle gualchiere e alla tintura. Vi erano i falegnami che costruivano quelle macchine industriali e gli operai che le manutenevano, i fabbri che costruivano gli attrezzi in ferro nonché le forbici per tosare e per azzimare. Quelli che producevano le tinture e quelli che le commerciavano. I commercianti di lana, di pezze di lana e di abiti di lana.
Le sarte e le operaie addette al confezionamento dei tessuti. I negozi che vendevano abbigliamento, gli ambulanti che portavano lana e vestiti alle fiere della Campania, della Puglia e della Basilicata.
Le forbici dei fabbri cerretesi erano diventate così richieste che una grande quantità veniva venduta nei mercati pugliesi.
Gran parte dei soldi guadagnati, però, i previdenti antenati li reinvestivano comprando altre pecore ed altra lana per incrementare la loro attività.
Ancora agli inizi dell’ottocento si contavano a Cerreto ben 22 “gualchiere”, cioè 22 fabbriche di panni lana, in molti casi con annessa tintoria.
“Tutti lavoravano- dice Domenico Franco- anche i vecchi e i giovani meno prestanti, oltre le donne”.
Anche a Cusano vi erano lavorazioni simili, anche se in misura ridotta rispetto a Cerreto. Prosperavano con l’allevamento delle pecore (molti da Cusano, Pietraroia e San Lorenzo Maggiore “menavano” le loro pecore nella locazione pugliese per i “cerretani”), il commercio e la fabbricazione dei panni lana. A causa della concorrenza si era stabilita anche una aspra rivalità mitigata dagli interessi comuni poiché spesso gli allevatori dei due paesi si associavano.
La produzione dei panni lana andò diminuendo già verso la fine del ‘700 mentre contemporaneamente si potenziava quella dello sfruttamento dei prodotti caseari.
Anche se le lavorazioni continuarono fine alla fine del ‘800, nuove mode che richiedevano nuovi tessuti (cotone e canapa), l’impossibilità di sostenete la concorrenza di altri Stati che avevano leggi più moderne di tutela ed una ventata di esterofilia, portarono definitivamente al declino quella che era stata una prospera e ricca industria.
I nostri avi, dunque, quando contavano i soldi in tarì, carlini e tornesi, pesavano con il rotolo, valutavano con il tomolo e misuravano i liquidi con la langella e la caraffa, attraverso l’allevamento delle pecore, la trasformazione e lavorazione della lana e la vendita del prodotto finito avevano raggiunto, grazie alle loro capacità imprenditoriali e allo spirito commerciale, una diffusa e notevole agiatezza economica.
Oggi di quella antica intraprendenza non si sa cosa resta nella cultura comune e nella memoria collettiva oltre ad alcune espressioni dialettali risalenti all’epoca, come “pensa a le pecore ‘a Puglia” per indicare chi, sovrappensiero, pensa ai propri affari o “ha fatto ‘a Puglia” per attestare il benessere raggiunto da qualcuno.
Continua…

Antonello Santagata


Bibliografia:
Domenico Franco – L’industria dei panni lana nella Vecchia e Nuova Cerreto- Benevento 1965
Domenico Franco – La pastorizia ed il commercio della lana nella antica e nuova Cerreto- Benevento 1966
Silvio Falato- La comunità degli ebrei a Guardia- Vesuvioweb.com 2019

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