Nell’immaginazione popolare la Janara non viene associata al diavolo ma piuttosto a inciarmi e fatture, alla cattiveria, alla paura, ai dispetti, raramente a malefici mortali e diabolici. E nemmeno alla bruttezza propria del diavolo, perché si racconta di donne di tutte le varianti estetiche, da quella grassa e vecchia a quella giovane e avvenente.
E neanche è da identificare con la strega, sennò non si sarebbero chiamate in maniera diversa.
Già dall’origine del nome si evince la differenza. Strega deriva dal greco strix, gufo. Passato poi nell’accezione latina al significato di un malefico uccello notturno, di cattivo augurio che si nutriva di carne umana. Le streghe, inoltre, nascono sì dalla fantasia popolare ma la letteratura, dalla Strega Cattiva delle fiabe passando per il Macbeth di Shakespeare per finire alla saga di Harry Potter, le ha in qualche modo elevate cosa che non è avvenuta per le janare che sono rimaste popolari.
La classica rappresentazione della strega, infine, è quella che la ritrae come vecchia e brutta con il naso adunco, il cappello a punta che vola a cavallo di una scopa. Anche questa è una rappresentazione che poco ha in comune con la janara nostrana, se non la scopa. E’ un immagine che viene riprodotta nelle moderne streghette della festa di Halloween e che, tuttalpiù, assomiglia alla nostra Befana.
A proposito di Befana è interessante una leggendaria ipotesi circa l’origine di quel mito. La nascita della Befana sarebbe da ricondurre a dei riti che avvenivano nell’antichità la notte del 6 di januarius, (gennaio), il mese dedicato Giano o Jano. In quella notte la sua controparte femminile, Jana, volava di notte sui campi, insieme alle sue 80 ninfe, per benedire e preservare il raccolto.
La più antica ipotesi sull’origine del nome janara è quella che lo fa derivare dalle seguaci della dea Diana che era invocata anche con il nome di Jana. Diana era la dea della caccia, degli animali selvatici, dei boschi, della luna e protettrice delle donne. In particolare delle donne indipendenti che non soggiacevano allo strapotere maschile. Le sue seguaci dunque erano delle donne autonome, esperte nel maneggiare l’arco e abili nell’uso di erbe medicinali, quando medicina e magia erano considerate un tutt’uno. E’ naturale, dunque, che nell’antichità donne con quelle caratteristiche venissero considerate perlomeno insolite se non addirittura streghe.
Per cui, dalle seguaci di Diana o Jana, si arriva alle Dianare e alle Janare.
Altra ipotesi sulla genesi del nome è quella che lo collega al latino ianua che significa porta, riferendosi a quegli esseri che si introducevano in casa passando sotto le porte. Perciò dietro di esse, per impedirne l’accesso, doveva essere posta una scopa o del sale. In questo modo le janare, scioccamente, si fermavano a contare i granelli di sale o i fili della scopa perdendo tempo fino all’alba quando erano costrette a dileguarsi.
Ma anche in questo caso c’è un diretto collegamento con Jana, che, come detto, era la controparte di Jano (il Giano dei Romani, il Bifronte) dio italico delle origini e dio delle porte (esteso al significato di passaggio), anche, dunque, della porta che metteva in collegamento il mondo dei vivi con quello dei morti.
Per quanto riguarda il mito, invece, alcuni lo fanno risalire al culto della dea Iside che fu introdotto da queste parti dall’imperatore Diocleziano che le fece erigere a Benevento un tempio nell’ 88 d.C.
Moglie di Osiride, sovrano dell’oltretomba, era la dea della fertilità e della magia, alla quale erano dedicati misterici riti notturni. Padrona del destino, veniva molto spesso comparata a Diana.
Ma il culto di Iside in quel periodo era diffuso e accettato in tutto l’Impero, non solo a Benevento, per cui, vista la peculiarità della tradizione sannita molti credono sia più plausibile che l’inizio vada fatto risalire ai miti e riti dei Longobardi.
Ci volle tutta l’autorevolezza e l’impegno di San Barbato per far desistere i Longobardi dal praticare le loro cerimonie pagane che si svolgevano sotto l’albero di noce, di sabato, lungo il fiume Sabato. Queste consistevano in un “sabba”, una pratica adoratoria, nella quale si svolgevano riti descritti come satanici, orgiastici e blasfemi. Adoravano una pelle di caprone appesa all’albero di noce e una Vipera d’Oro a due teste. In quel contesto le donne si congiungevano carnalmente con il diavolo.
Di questi culti ci parla Pietro Piperno, un medico beneventano del 1600, nel suo volume “De nuce maga beneventana” tradotto in “Della superstiziosa noce di Benevento” che, in definitiva, decreta l’origine della leggenda riconducendola al periodo della dominazione longobarda.
Ma già da prima del Piperno Benevento godeva fama di città di streghe. In un poemetto del 1200 viene citata Benivento come luogo adatto a diavoli e fattucchiere. Chi, però, contribuì molto alla diffusione del mito delle streghe sannite fu, forse inconsapevolmente, San Bernardino da Siena (XV secolo), gran fustigatore della stregoneria, che in una sua nota predica racconta di un convegno di streghe a Benevento. E’ possibile, dunque, che quando, secondo una leggenda, il Santo giunse nel beneventano fermandosi a Morcone (paese di cui è protettore), ci sia arrivato nell’ambito della sua crociata contro le donne che si dedicavano alla magia.
Il medico scrittore Francesco Redi (un altro medico!) ci mise del suo nel XVII secolo scrivendo la novella “Il gobbo di Peretola” dove racconta di un gobbo che si reca a Benevento e viene guarito dalle streghe locali incantate dalle sue doti canore. Un altro gobbo, invidioso della buona sorte del primo, fa la stessa cosa ma, essendo completamente stonato, viene punito dalle janare beneventane con un’altra gobba sul davanti.
A rendere ancora più famoso il nome di Benevento ci pensarono due streghe “vere” processate dal Sant’Uffizio a Roma nel XVI secolo, in due diversi procedimenti: Bellezza Orsini e Faustina Orsi. Entrambe “confessarono” (grazie ai suggerimenti del Malleus maleficarum- Il martello delle streghe, un trattato dei Dominicani pubblicato nel 1487, che spiegava come riconoscere le streghe e quali “strumenti” adoperare per interrogarle) di essersi recate più volte sotto il noce di Benevento per “fare tutto quello che il diavolo voleva”, rivelando anche la formula per volare: “Unguento, unguento portace alla noce di Benevento sopra acqua e sopra vento e sopra ogni maletempo”.
Bellezza Orsini scampò al rogo suicidandosi in carcere. D’altronde non risulta che a Benevento, nonostante sia considerata la patria delle janare, nessuna strega sia mai stata messa al rogo.
Delle janare, intanto, i nostri nonni sapevano tutto. Come riconoscerle: la notte di Natale erano le ultime ad uscire dalla chiesa. Come contrastarle: il sale e la scopa. Come allontanarle: pronunciando la frase “oggi è sabato”, che ricordava loro gli impegni malefici a cui dovevano attendere in quel giorno. Come catturale: afferrarle per i capelli, e alla domanda “che tieni in mano?” non bisognava mai rispondere “capelli” altrimenti se ne scappava “come un anguilla” bensì “ferro e acciaio”. Nel qual caso la janara, sentendosi in trappola, prometteva protezione alla famiglia per le successive sette generazioni.
Cosa facevano: fatture, “occhi” e malefici inciarmi d’amore e di invidia, inoltre “torcevano” i bambini la notte (provocando malesseri più o meno gravi) e sfiancavano i cavalli lasciandoli nella stalla sudati e con il crine intrecciato.
Come si trasformavano: grazie al prodigioso unguento magico. In una delle tante leggende, il portentoso unguento viene sostituito, con banale olio, da un marito insospettitosi di avere una moglie janara facendola spiaccicare al suolo quando questa si lancia dal balcone con l’intenzione di spiccare il volo verso il noce di Benevento.
La janare erano delle popolane e come tale apparivano. Si abbigliavano in maniera consona al mestiere che esercitavano ed erano una tra tante, conosciute tuttalpiù con il nome di battesimo seguito dal paese di provenienza. Anche se ci sono state janare che ebbero una certa notorietà ed il cui nome è stato tramandato.
Come Alcina, che svolgeva la sua attività nei pressi di una grossa pietra vicino Benevento (Pietrelcina) o Menarda, che aveva il suo laboratorio in una grotta al confine tra il Sannio e l’Irpinia (Grottaminarda) o come Maria la Rossa, che, nell’800, aprì a Baselice addirittura una scuola di stregoneria. Da come ci descrive quest’ultima Fiorangelo Morrone riprendendola da Jamalio(capelli arruffati, gonna lunga, grossi cerchi alle orecchie, parecchi anelli con teschi e teste di capra, una collana da cui scendeva un serpente di ferro), si ha una idea dell’iconografia della janara sannita, abbastanza diversa da strega hollywoodiana.
Come riporta Abele De Blasio nel suo “Inciarmatori, maghi e streghe di Benevento”, nel 1900 erano attivi nella provincia 2.090 operatori del settore di cui 815 nel Distretto di Cerreto Sannita suddivisi in inciarmatori, occhiarole, maghi e janare.
Andando oltre, nelle varie tipologie di esseri sovrannaturali sanniti un posto di rilievo spetta alla Manalonga. Detta anche Manilonga o Manolonga, è lo strega dei pozzi. Inventata per terrorizzare i bambini che si avvicinavano troppo ai pozzi allo scopo di evitare tragedie, è dotata di lunghissime braccia (da cui il nome) con le quali tira giù le improvvide creature. Il pozzo stesso, inoltre, doveva incutere timore poiché veniva descritto come tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
A Limatola quello spirito è soprannominato Mariacatena, riferendosi forse alla catena del secchio che adopera per trascinare sotto le persone. Quella stessa catena utilizzata, come narra una leggenda, per farla morire affogata in un pozzo. (Singolare fine per una strega quella di morire per mezzo dell’acqua e non del fuoco).
Zannilonga si chiama, invece, a Fragneto Monforte. Probabilmente il nome è in relazione ad una strega immaginata con la dotazione di lunghe zanne con le quali addenta i malcapitati per portarli con sé in quella cavità.
A Benevento tutti hanno sentito parlare della Zucculara. Si tratta un’altra figura magica che si aggira di notte nei pressi del Teatro Romano. Appare improvvisamente a chi si aggira solitario in quei pressi per poi, altrettanto rapidamente, scomparire lasciando solo un lugubre rumore di zoccoli insieme ad una agghiacciante risata. La funzione sociale della Zucculara era quella di scoraggiare i ragazzini ad attardarsi di notte in strada. Qualcuno la associa al culto di Ecate, divinità legata alla notte, ai fantasmi e ai demoni, rappresentata con un unico sandalo metallico il cui scalpitio doveva fare un casino infernale.
In aggiunta bisogna considerare l’Uria, che è lo spirito della casa o comunque il fantasma di un suo precedente abitatore. A volte si manifesta ai nuovi inquilini, il più delle volte si nasconde. Sposta o fa sparire oggetti. Provoca degli incubi oppressivi quando grava con il suo peso sullo stomaco delle persone che, se pur vigili, non riescono a gridare per chiedere aiuto (facoltà, questa, attribuita anche alle janare). Può portare fortuna e soldi se rispettata, ma guai ad averla contro perché sono guai e malattie.
A Cerreto la notte del 24 giugno compare la ‘Nzilla che danza su una trave di fuoco posta tra le sponde di un torrente nei pressi della chiesetta di San Giovanni. Identificata, a volte, erroneamente con una janara deve invece la sua origine alla storia di Salomè e di sua madre Erodiade, che chiesero ad Erode la testa del Battista. Figure evangeliche condannate, per quel peccato, a vagare per sempre insieme al diavolo e con il tempo assimilate a personaggi legati al mondo della stregoneria e dediti a quelle pratiche.
Oltre a spaventare, non risulta nella tradizione una qualsiasi interazione della ‘Nzilla con gli umani.
In questa galleria di spettri, il genere maschile è rappresentato dal solo Monaciello. E’ un nano o un bambino che porta un bastone, vestito con un saio da monaco. A volte appare alle persone, “in punto mezzanotte”, per poi svanire di colpo. Caratterialmente è come l’Uria, uno spirito dispettoso e vendicativo, inafferrabile, che crea confusione in casa spostando e nascondendo oggetti, facendo inciampare e così via. Ma, si dice, che chi riesce ad acchiapparlo per il cappuccio può farsi condurre nel luogo di un favoloso tesoro, nascosto in casa da qualche precedente abitante. A Benevento una leggenda fa nascere il Monaciello dall’anima inquieta di uno dei tanti poveri bambini seppelliti, con un semplice saio addosso, dopo un’epidemia di peste, nel cimitero dei Morticelli nell’abbazia dei Santi Lupolo e Zosimo.
Figura analoga al Monaciello è il Mazzamauriello in alcuni luoghi detto anche Mazzapauriello.
Sono almeno due, infine, i Fantasmi del Museo del Sannio. Tra i reperti sanniti, egizi e longobardi si dice si aggirino il fantasma di un anziano monaco, che scompare non appena viene osservato, e lo spirito dispettoso, che si diverte a fare scherzi ai ragazzi, di un giovane uomo in abiti d’epoca con un berretto rosso calato sul viso.
L’universo dei nostri progenitori era popolato da tantissime altre figure magiche, terrificanti e paranormali. Soprattutto fantasmi dei morti ma anche spiriti di ogni genere, diavoli, Angeli punitori, la Morte in persona nonché dal terribile Lupo Mannaro (a Benevento detto Lupo Panaro).
Ogni storia con questi personaggi aveva una funzione educativa, oltre che di intrattenimento, e serviva a trasmettere alle generazioni future, nei tempi in cui il racconto era prevalente sul libro e la trasmissione orale era la forma principale di divulgazione, le tradizioni ed il patrimonio culturale di un popolo.
Antonello Santagata
Bibliografia:
Paola Caruso- Santi Spiriti Streghe- Ed. Realtà Sannita- Benevento 2001
Alberto Abbonandi- Le streghe di Benevento e il simbolo dell’albero- Ed. Il Chiostro- Benevento 2011
Antonello Santagata-Dietro la leggenda- Ed. Tetaprint- Cerreto Sannita 2016