“Se Cosimo Giordano sia stato un partigiano e patriota borbonico o un assassino, delinquente comune, o magari entrambe le cose, è tutt’ora materia di discussione e di scontro tra opposti modi di leggere la storia. Le vicende del brigante cerretese,
nell’ambito di quella “guerra civile” che portò all’unità d’Italia, coinvolsero di persona i nostri avi e si svolsero tra le mura e le strade di quelle che oggi sono le nostre case e i nostri paesi…”
Così comincia la narrazione di Antonello Santagata che, dopo due puntate rese avvincenti, così conclude: “…Trasferito nel carcere siciliano di massima sicurezza dell’isola di Favignana, scontò la pena per soli 4 anni. Infatti, nel novembre del 1888 morì (non è dato sapere come, se di morte naturale o violenta, malattia o stenti) quando aveva da qualche giorno superato i 49 anni.”
Cominciamo da dove finisce Antonello…
Ingannato, tradito, arrestato a Genova il 26 agosto 1882 dalla gendarmeria Savoiarda, Cosimo, sulla cui testa la Sottoprefettura di Cerreto aveva messo, fin dal 1869, una taglia di L. 13.000 “vivo o morto”, fu processato a Benevento e condannato ai lavori forzati a vita. Il processo sicuramene non fu “garantista” come quelli che si vedono oggi, e la mancata comparizione di testimoni francesi ne è una prova. Insensibili alle sue proteste: “Ho capitanato una banda armata per un solo scopo politico, quello cioè di insorgere contro il Governo Nazionale, e restaurare il vecchio regime: sono un patriota, non sono un traditore!”, i giudici del Regno d’Italia lo internarono in Sicilia, nel carcere di massima sicurezza di Favignana. Un posto inaccessibile e inavvicinabile dove i detenuti, rinchiusi senza alcun rispetto dei propri diritti, venivano sottoposti a trattamenti disumani. Una sorta di Guantanamo
“ante litteram”, un carcere inespugnabile, in un’isola completamente fortificata con tre castelli costruiti intorno alle torri arabe di avvistamento: Santa Caterina, San Giacomo e San Leonardo. Le tre fortezze furono destinate dai Borbone a luogo di pena tristemente famoso: “U carciri di Santa Catarina è ammintuatu, cu trasi c’a parola, n’esci mutu” –
Perché i Savoia scelsero Favignana come carceri ove far scontare la pena a Cosimo? Fu un riconoscimento “involontario” della sua pericolosità politica, visto che il Brigante cerretese, già Caporale dell’esercito Borbonico, non se l’era sentita di fare il “salto della quaglia”, specialità tipica di una certa classe politica di oggi?
Dopo l’”unità d’Italia” a loro insaputa, la maggior parte dei soldati borbonici prigionieri veniva internata tenendoli lontani dai loro paesi, dove avrebbero potuto alimentare la ribellione armata. Le carceri più dure furono riservate ai recalcitranti alla leva militare, i cosiddetti soldati «sbandati», smistati essenzialmente nel forte di San Maurizio Canavese che, a suo tempo, contenne contemporaneamente fino a più di 10.000 prigionieri di guerra duosiciliani. Molti vi morivano per la durissima vita, senza ripari di alcun genere dalle intemperie e dormendo per terra all’addiaccio.
Peggio del forte di San Maurizio Canavese, vero campo di repressione, era quello di Fenestrelle, a 1200 metri di altezza.
E Favignana?
Certo i delinquenti normali non venivano internati in quella lontana isola convertita in carcere per i condannati all’ergastolo, con Codice Regio del 1819 emanato da Ferdinando I Re del Regno delle due Sicilie. I prigionieri politici venivano rinchiusi nel forte di Santa Caterina o nel “Bagno di espiazione” di Castel San Giacomo. Tra i primi “ospiti” di Santa Caterina figurano i patrioti che nel 1820 si ribellarono all’assolutismo di Ferdinando II che aveva tolto alla Sicilia la sua tradizionale autonomia dopo il Congresso di Vienna (1815). Dopo i moti del 1848 che infiammarono l’Europa intera, le carceri di Santa Caterina si riempirono nuovamente di patrioti, tra i quali, dopo l’infelice spedizione di Carlo Pisacane (1857) per ordine espresso di Ferdinando II, i superstiti della spedizione di Sapri che furono internati e chiusi in una fossa scavata nella roccia. Ricordo che l’impresa rivoluzionaria doveva partire dal porto di Genova, sbarcare a Ponza per liberare alcuni prigionieri politici, lì rinchiusi, per rinforzare le file della spedizione dei mille, e infine dirigersi a Sapri che, posta al confine tra Campania e Basilicata, era ritenuta un punto strategico ideale per attendere dei rinforzi e marciare su Napoli.
Ospite del lugubre maniero fu pure il barone Giovanni Nicotera (Cerreto gli ha dedicato una strada: la Cartiniera). Questi, che aveva aderito alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, si era rifugiato in Piemonte, dove, nel 1857, aveva organizzato la
spedizione di Sapri con Carlo Pisacane. Gravemente ferito durante l’assalto alla guarnigione borbonica di Ponza, fu arrestato, processato e condannato a morte. “Graziato”, fu trasferito a Favignana, nelle prigioni di Santa Caterina, prima di essere
spostato nel “bagno penale” di San Giacomo. Nel “bagno”, che deve il nome alla conversione dei bagni pubblici di Costantinopoli in prigione nel XVI secolo, venivano rinchiusi i condannati a morte ai quali il re concedeva la “grazia”.
Nicotera fu messo in un buco separato, detto “la stanza del somaro”, per la puzza che emanava, dove non poteva stare disteso se non mettendosi a cavalcioni di un fosso posto nel mezzo, pieno di acqua limacciosa, che traboccava anche sul pavimento.
Scorpioni, topi e zanzare a migliaia e buio profondo. Una panca in pietra serviva da giaciglio. Il Barone qui rimase fino al 1860, quando fu liberato dai garibaldini. Il posto lasciato libero dal futuro Ministro degli Interni nel governo Depretis , fu “riservato”, nel 1884, a Cosimo Giordano, che vi morì dopo soli 4 anni, il 14 novembre 1888 alle ore 9,55.
Ecco cosa scrive Alexander Dumas, nel suo romanzo “I Borboni di Napoli”: “Per coloro cui Sua Maestà faceva grazia, vi era la fossa della Favignana, cioè una tomba, isola fatale. Era già una prigione al tempo degli imperatori pagani; una scala scavata
nella pietra, conduce dalla sua sommità ad una caverna posta a livello del mare; una luce funebre vi penetra senza che mai questa luce sia riscaldata da un raggio di sole; cade un’acqua agghiacciata dalla vólta, pioggia continua ed eterna che rode il
granito più duro, e che uccide l’uomo più robusto. Iddio vi guardi dalla clemenza del Re di Napoli!.” In tale luogo si veniva sottoposti alla pena dei “ferri”, che sottoponeva i detenuti a fatiche penose, costringendoli a sopportare fatiche fisiche spesso
disumane, finalizzate solo al profitto economico dello Stato. In questi luoghi ameni, i condannati trascinavano ai piedi una pesante catena, o soli, o uniti a due, a secondo della natura del lavoro a cui venivano addetti. Per accoppiare i forzati nuovi
giunti e gli incorreggibili erano utilizzate le catene di 18 maglie del peso di 6 Kg.
P.S. mi sono attenuto soprattutto a quanto documentato dallo scrittore-Commissario di Polizia Penitenziaria Giuseppe Romano “pubblicato” nell’Archivio culturale di Trapani, cercando di non far trasparire la mia “simpatia” istintiva verso un personaggio cerretese condannato dai Savoia a pene indicibili e non giustificabili con quanto fatto dai Borbone agli oppositori. Le lacune sul fenomeno del brigantaggio, e su Cosimo Giordano, sono tante. Forse, per colmarle, sarebbe quanto mai opportuno il Centro Studi sul Brigantaggio da aprire presso la casa di Cosimo Giordano, ancora “integra”, prima che sciagurati restauri la…modernizzino. Purtroppo da poco (dopo che ne avevo parlato su Fb…) è ”sparito” il moschetto che era legato alla grata della
finestra. Era il moschetto di Cosimo?
“….Per valli, per monti, per erti dirupi,
Fra nevi, bufere, fra gli urli de’ lupi
In mano brandito pesante moschetto
Nell’altra un vessillo dal ciel benedetto,
pugnamo da forti, da forti moriamo,
……………………………………
Ci chiaman briganti, ma briganti non siamo,
Briganti voi siete, campioni noi siamo
Di un Rege, di Dio! Per cui combattiamo
Noi lieti saremo, noi ch’ora soffriamo.
Da: Il Canto dei montanari
C.Gasparro-Memorie-1914
Renzo Morone