Qualche tempo fa diedi una cena per degli amici napoletani a Cerreto. Tutti buongustai, tutti appassionati della buona cucina, tutti frequentatori assidui dei migliori ristoranti. E adesso, pensai, con questi come me la cavo? Non mi persi d’animo e decisi di sbalordirli.
Con un po’ di tempo a disposizione mi attrezzai per procurarmi la materia prima che sarebbe stata degustata la fatidica sera.
Trovare i “Fagioli della Regina di San Lupo” non mi fu difficile, viste le mie tante amicizie in quel paese. Dopo averli lasciati qualche ora in ammollo dalla sera prima, li preparai a zuppa con aglio ed un trito di verdure. La mia intenzione era di offrirli con bruschette di pane casereccio e conditi con il nostro eccellente olio EVO.
Questa varietà di fagiolo, molto delicato anche perché non è stato mai manipolato dall’essere umano nei secoli, pare che attecchisca esclusivamente nel territorio di San Lupo grazie alle caratteristiche del terreno e al particolare tipo di clima. E’ un legume veramente di ottima digeribilità. Grazie, infatti, alla sua buccia sottilissima la fermentazione intestinale è notevolmente ridotta. Ma soprattutto ha un gusto unico, dolce e delicato.
L’origine del nome di questo pregiato frutto della terra fa riferimento ad una storiella risalente all’ottocento. Achille Jacobelli da San Lupo, imprenditore e fondatore delle prime terme moderne di Telese nonché frequentatore di casa Borbone, ospitò nel suo paese Re Ferdinando II e la Regina Maria Teresa d’Asburgo. Quest’ultima gradì molto quei fagioli che le vennero offerti nell’occasione tanto che da allora presero il nome di “Fagioli della Regina” degni, cioè, di andare davanti ad una testa coronata.
A proposito di San Lupo, vale la pena soffermarsi un attimo su una peculiarità di questo piccolo centro sannita. Qui hanno avuto la capacità di salvaguardare gli antichi sapori e di valorizzare la tradizionale “cucina povera” attraverso dei piatti che sono una vera gioia per il palato. Mi riferisco in particolare alla “’npanatella” (un misto di verdure invernali con finissima polenta di grano turco); alle “polpette di pane” (mollica di pane, uova e formaggio) da servire fritte o con il sugo e, soprattutto ai deliziosi peperoni imbottiti.
La preparazione di questi dura anche tre giorni. Tutti della stessa misura, tutti dello stesso colore (rigorosamente verdi) ed una imbottitura la cui ricetta è un segreto di ogni singola famiglia.
Tornando alla cena, per secondo preparai della “Salsiccia rossa di Castelpoto” al forno con patate di Cusano Mutri.
La salsiccia di Castelpoto viene preparata con una ricetta che risale ai tempi dei Longobardi. Vengono selezionate solo le migliori carni del maiale (originariamente nero, ora pezzato), prosciutto, spalla e lonza. Queste vengono macinate e impastate insieme a sale, finocchietto, un infuso ottenuto mettendo in acqua delle “cape d’aglio”, e della polvere di peperoncino (essiccato, tostato e macinato) piccante o dolce (io presi la versione dolce) che dà il tipico colore rosso vivo.
Per quella secca la stagionatura è di circa un mese.
E’ un presidio slow-food della Campania e fortunatamente i castelpotani sono riusciti a valorizzarla sia attraverso una sagra che si tiene ad aprile sia, soprattutto, con la costituzione di un Consorzio di produttori che garantisce il rispetto della tradizione attraverso delle precise regole di produzione.
Il migliore abbinamento con la salsiccia è, notoriamente, costituito dalle patate e quali meglio di quelle di montagna? Ancora tramite amici riuscii a procurami delle magnifiche “Patate sotterrate di Calvaruso” (località di Cusano Mutri). Sono a buccia rossa e, dopo la raccolta, le migliori e più grosse vengono interrate in buche profonde un paio di metri foderate di foglie di felce. Vengono poi dissotterrate (se nel frattempo le trovano ancora!) e utilizzate in primavera.
Patate asciutte e dal gusto dolce che danno il meglio sia fritte che per la “pizza di patate” ma soprattutto per il crocchè al quale riescono a dare la giusta consistenza.
L’antipasto glielo feci saltare, ai miei amici napoletani, perché preferii servire in chiusura insieme a tocchetti di “Prosciutto di Pietraroja” alcune fette di “Caciocavallo di Castelfranco in Miscano”
Il prosciutto di Pietraroja è una specie di leggenda, tutti ne parlano ma pochi riescono a trovarlo per gustarlo, non a caso è definito il prosciutto più ricercato al mondo.
Il segreto di questo prosciutto sta tutto nella posizione geografica del paese e nel suo particolare clima asciutto che ne permette una essiccazione e una stagionatura perfetta consentendo di utilizzare poco sale. La sua fama risale al ‘700 quando già era presente sulle tavole dei nobili anche se allora si trattava del maialino nero casertano allevato a mele, ghiande e gelsi.
Trovarlo, dicevo, è una vera impresa però: pochi commercianti ed un solo punto vendita.
Più facile fu approvvigionarmi dell’eccellente caciocavallo di Castelfranco. Esistono vari produttori ed una sagra nel mese di settembre.
Deriva da latte vaccino proveniente da animali allevati localmente, il migliore è quello lavorato in primavera quando le mucche sono al pascolo. E’ riconosciuto come “prodotto tradizionale” dal Ministero dell’Agricoltura. Si trova in forme che vanno da 1 Kg in media fino a 10 Kg, stagionato 6-12 mesi a “cavallo” di una pertica.
Il segreto? Una antica lavorazione e, ancora una volta, il particolare clima di Castelfranco.
Il sapore? E che ve lo dico a fare. Bisogna provarlo.
Sul dolce i napoletani mi aspettavano al varco. Forti della loro tradizione di fine pasticceria, dell’uso domenicale di mangiare il dolce in tutte le famiglie, erano certi che il fine pasto non sarebbe stato all’altezza delle portate precedenti.
Invece gli servii delle “Cassatine di San Marco dei Cavoti” e “deliziose!” fu il commento più diffuso.
San Marco è un paese di antiche tradizioni dolciarie, basta ricordare gli ottimi “torroncini”, anche se le cassatine sono il dolce più conosciuto e più apprezzato.
Non è chiaro come questa ricetta di origine arabo-siciliana sia giunta nel paese fondato dai Provenzali, ma sicuramente il risultato è esaltante.
Pasta reale, pan di spagna bagnato con liquore (anche con lo Strega), ricotta (meglio se di pecora) e cioccolato sono tra gli ingredienti di questo incantevole dolce.
Bene, inutile dirvi che feci un figurone, ma la soddisfazione maggiore fu che attraverso questi gustosissimi prodotti i miei amici si fecero un’idea migliore e più completa del Sannio. Lo si capì dai discorsi di lode e di apprezzamento per il nostro territorio intavolati quella sera che aumentavano di entusiasmo man mano che gustavano quelle squisite portate.
Così, al momento del trionfo, con un po’ di supponenza, ribadii che quello era “solo un assaggio” delle magnifiche prelibatezze che si possono assaporare dalle nostre parti (che, d’altronde, è la verità).
Non rivelai però, quanto mi fu difficile reperire il prosciutto a Pietraroja, oppure che avrei voluto far provare loro il mitico “tartufo bianco di Ceppaloni” (ma non c’è modo alcuno di procurarselo), o anche solo parlargli dell’altrettanto mitico “maialino di Apollosa” (del quale non esiste più traccia).
Prodotti che messi a profitto, con un po’ di spirito imprenditoriale, potrebbero dare tanto in termini economici, occupazionali e, perché no, turistici, rimangono inutile delizia di pochissimi privilegiati.
Che peccato!
P.S. Non dico dei vini, ovviamente sanniti, che abbinammo a quel prelibato cibo perché quello sui vini è un altro, interessantissimo, discorso.
Antonello Santagata