
Lo scrittore-medico Emilio Bove (casalisch’ di San Salvatore Telesino), l’altra sera, con la tipica freddezza dello studioso, mi ha voluto, scientemente, assestare un preciso fendente dritto al cuore della mia “cerretanità”.
“Sai- mi ha detto- sto leggendo un libro di novelle lucchesi risalenti agli inizi del secolo scorso. Ce n’è una che mi proprio divertito. Parla della predica di un prete toscano, la sera del Venerdì Santo, molto bravo a narrare storie evangeliche, con passione e capacità recitative, da far immedesimare gli ascoltatori tanto da coinvolgerli emotivamente”.
“La storiella – ha continuato l’insensibile letterato-dice di questo prete che, nel sermone sulla morte e passione di Cristo, riesce ad essere così trascinante da far piangere i parrocchiani. Poi, pentito dello strazio e delle lacrime provocate, conclude in maniera rassicurante seminando dubbi sulla veridicità degli accadimenti”.
“Caspita!- aggiungo io- mi ricorda molto nella sostanza l’aneddoto di Cristaregl’, lo conosci?”
“No” ribatte lui.
Allora, premettendo che si tratta di una storia ambientata a Cerreto agli inizi del novecento che vede come protagonisti il prete ignorante don Cachito (Giacinto) e la sua predica di Natale, gliela recito di un fiato.
Gliel’ho recitata nella versione riportatami quasi 50 anni addietro da Vincenzo Mendillo fu Giuseppe e che la scrittrice-linguista Elena Cofrancesco mi fece raccontare per riproporla, fusa ad altre versioni, in un suo libro.
(L’aneddoto, fatto salvo l’impianto di base, ha varie versioni a Cerreto frutto delle aggiunte, sottrazioni o sostituzioni di ogni singolo narrante. Perché, come ama dire il filosofo Valentino Petrucci: “Le leggende appartengono all’ultimo che le racconta”.)
La stessa versione che riporto, ora, di seguito a suo beneficio, così si può allietare quando vuole rileggendola.
«E nomine ‘e Padre, Figliol’, Spirit’ Ssant’, Ammen… e jamme dicenne. Paricchije e paricchije anne fa a Betlemme, nasceu Cristaregl’. Uia mo’ v’addumannate che temp’ faceva? Sciuccava, chiueva, ce steva i’ sole…chiss’ so cazz’ che i’ n’i saccio pecchè dentra a chella terra sperduta c’ fa sempe caut’ ma chella notte eva fatta tanta de chella neua e faceva tanta de chell’ fridd’ che i cazzaregl’ n’z’ sciuglievan’…
Quando de botta dentra a i ciel’ stellato abbiau n’ammuina d’angeli e arcangeli che ivano agliucchenn’: “Ha nat’ il Redentore, ha nat’ il Re dei Re”. “Neh, pe sapè ma chi cazz’ ha nat’?”addumannarn’ i pastur’. “Come! Ha nat’ Gesù, ha nat’ il Salvatore. Iate appress’ a chella stelluccia che v’ porta da iss’”.
I cafun’ pensaren’: “ Chiss’ adda esse un’ potente, è meglio che i purtame cacche cosa e iamm’ a vedè chi è. Se no i gross’ s’a pigliano sempe cu nuia poveregl’”. Accussì se carecareno de ogni ben’ d’ Dijo: chi purtava a sausicchia, chi le pizza fritte, chi agliata, chi a ventresca arraugliata; oua, pezzuttell’ de furmaggio …
A nu certo punt’ a stelluccia se fermau. Uia mo’ ve credete che se fermau ‘ncoppa a nu palazz’ dorato…mancu p’i cuazz’! Se fermau ‘ncoppa a ‘na grotta, gliorcia e zuzzosa, addò ‘ncoppa a nu poch’ de paglia ce steva Cristaregl’ nud e crud che si n’ n’era p’i ciuccio e i bow’ che i sciatavano pe ìnfaccia. (vi’ che bella puglizia!!) ess’ mort’ de doppia brunchita e pulmunita e cu stu cazz’ faciavam’ chiù i presepio!…
Affianco a stu criatur’ ce steva a Madonna e San Giuseppe che chella sera steva ‘ncazzato nir’ che pareva come si eva passat’ nu ‘uaio. Ma quando vedde tutta chella razija de Dijo s’autau vicino a muglier’ e diceu:” Palamatonna, i facess’ quas’ n’at’!”…
I uaglione crisceu, bon’ uoglion’! A mamma i cumannava nu servizio:” Cristarè va pe sale, Cristarè va pe fiammifer’” e iss’ ce iva. Era proprio nu bon’ uoaglion’, no come a sti uagliunastr’ de mo che si i cumann’ nu servizio te mannan’ subet’ affancul’.
Na matina, a 33 ann’, s’osa scetà sctort’, tant’ever’ che se utau vicin’ a mamma e i diss’:” Mamma- mà, uogl’ i predechenn’ n’ poch’ de duttrina cristiana pe stu munn’ for’”. A mamma da coppa a man’ i rispunneu:” Uaglion’ statt’ a casta, fatt’ i cazz’ toi. Che chi n’ sente a mamma e padre se troua addò n’ n’è nat’”. I uaglion’, capa tosta, os’ i. E chi sape qualla parola sconcia, ma qualla parola sconcia osa dic’ a sta umanità nazionale, che i facern’ nu manticiatone, ma nu manticiatone che le sapeu iss’ e iss’ come iu a fenì”.
I facern’ fa na brutta fina, ‘nchiuat’ ‘ncoppa a na croce cu a mamma sotta che chiagneva che me pareva a Madonna Addulurata…
Uia mo’ chiagnet’, v’ disperat’, v’ tirat’ i capigl’…ma oggi è festa…è Natale…iate a le casela vostre e magnatev’ le pizz’ fritt’, i buaccalà, i cuapeton’, i ciciaregl’…pecchè chiss’ so’ fatt’ succes’ tanta e tanta cazz’ d’ann’ fa che si po’ iamme vedenn’ a vedè pur si cazz’ è ver’».
(La versione completa ed integrale è godibile sul libro di Elena Cofrancesco “La parlata cerretese- L’C’rratèn’-Associazione Socioculturale Cerretese-1990).
Comunque lui ha fatto finta di non conoscerla e, mentre ancora rideva divertito, ha commentato: “Carina, molto carina e suggestiva. Evidentemente era una racconto particolarmente diffuso all’epoca”.
Non contento, il glaciale erudito telesino, mi invia, il giorno dopo, una mail con il frontespizio del libro (Idelfonso Nieri- Cento racconti popolari lucchesi- Raffaello Giusti Editore, Livorno 1909) e il testo della novella.
La leggo in un attimo e vi ritrovo concetti familiari:
«Tempo, ma tempo fa, un predicatore la sera del venerdì Santo faceva la predica della Passione. Era un predicatore di spolvero, alle sue prediche ci era sempre pieno zeppo e a sentirlo ci stavano a bocca aperta come incantati.
Quella sera faceva dunque la predica della Passione, e ci si era messo con tutto il cuore e con tutte le forze…passo passo lo fece schiaffeggiare dai soldati; e gli fece mettere la corona di spine in capo; e l’accompagnò sul monte Calvario; e lo crocifisse in croce; e tanto disse coi chiodi, coll’aceto e cogli strazi e coi patimenti che tutta la gente a un certo punto dettero in uno scoppio di pianto.
Era un pianto generale per tutta la chiesa…al predicatore gli cominciò a saper male di vederli così tapinarsi e sgomentarsi così in quel pianto disperato, e cominciò a dire: “Su, riveriti uditori! Fatevi animo, fatevi coraggio…smettete, via, tranquillizzatevi. Tutte queste cose io le ho dette perché c’incastravano bene, e perché le ho trovate su per i libri. Ma sono storie antiche che si leggono nei libri vecchi, ma è tanto tempo che sono accadute, chi lo sa poi se sono neanche vere”.»
Rispedisco una mail all’amico e collega: ”Cacchio, mi hai distrutto un mito”.
Ma dico io, ma ti leggi proprio di tutto. Dove caspita l’hai pescato un libro di novelle del 1909. Di Lucca poi! E proprio a me lo dovevi dire? Lo sai, non negare, quanto noi cerretesi amiamo quella storiella. Quanto ne siamo orgogliosi. E’ inserita anche nei libri che raccolgono le nostre tradizioni.
Io, in particolare, ci ho “campato” per anni. Convivi, feste, incontri; ogni occasione è stata buona per spolverare la storia di Cristaregl’ che, come hai sentito, in cerretese è tutta un’altra cosa. Persino un alto prelato, che mi onora della sua amicizia, ogni volta che ci incontriamo mi prega di raccontargli la famosa predica.
E ora tu mi vieni a dire che: “Evidentemente era un racconto particolarmente diffuso all’epoca”.
E no, caro Emilio, te la dico io la verità.
Evidentemente qualche toscano o di qualche altro posto, all’epoca in cui a Cerreto si svolsero i fatti o poco dopo, si è trovato a passare di qui e ha sentito il racconto. Visto che era in dialetto non ha capito molto. Ha capito solo il finale e s’è inventato una novella copiando quella nostra e copiandola anche male.
Questa è la verità! La storiella è assolutamente originale cerretese e da lì si è diffusa nel resto d’Italia. Hanno provato a riproporla ma non sono riusciti, come hai visto, ad essere così esilaranti, arguti ed ironici come lo sono stati i cerretesi.
Ti saluto con affetto, affamato lettore casalese.
Antonello Santagata
Devo ammettere a malincuore: la mia provocazione mi si è rivoltata contro. La versione cerretese è un vero e proprio capolavoro della cultura popolare. Ormai Cristaregl’ è diventato un mio idolo. Non c’è paragone. L’interpretazione del dott. Santagata poi è strabiliante e non ha nulla a che vedere con quella toscana che sarà pure di tanti anni fa ma non è nemmeno detto che sia autentica.