Dream House: che l’Abbazia del S. Salvatore lo sia, è vero per chiunque vi sia entrato, ma venerdì scorso abbiamo respirato davvero aria di sogno grazie alla straordinaria musica di Rosario Giuliani, accompagnato dal trio Capasso-De Marco-Petrarca. Con elegante semplicità e misurate parole, così rare di questi tempi, la Pro Loco di San Salvatore e l’Associazione Giovani UNESCO per la Campania hanno introdotto le strepitose “scale” di Giuliani che di lì a poco ci avrebbero tolto il fiato.
Non sono una cultrice della musica in senso stretto e ancor meno del jazz, ma venerdì sera si poteva sperimentare in prima persona ciò che sosteneva il filosofo Leibniz e cioè che “la musica è l’aritmetica dell’anima che non sa di contare”. La rigidità o la mollezza con cui eravamo seduti all’inizio dell’evento erano completamente scomparse alla fine del concerto e chiunque era ormai in grado di battere il tempo con le mani, i piedi, la testa. Un vero e proprio contagio. Occhi chiusi, per alcuni, aperti per altri, come nelle migliori atmosfere oniriche, notturne o diurne. Dream house, appunto. E anche l’architettura dell’Abbazia sembrava più fluida.
C’è nei sogni la musica? Raramente in forma esplicita, voglio dire che non capita così spesso che si racconti di aver sognato per esempio Dream House di Giuliani o un qualunque altro brano. La musica viene raffigurata piuttosto con immagini o parole che ad essa rimandano. Invece, in forma implicita, ogni sogno ha una sua musicalità, che dipende dall’armonia o dal contrasto degli elementi che lo compongono, dal tono della voce con cui viene narrato, dalle pause con cui si alternano le scene, dai colori: cupi, tenui, vivaci. Dal piacere o dal dispiacere; dalla “mono-tonia” o dalla ridondanza che emana complessivamente. Soprattutto, dalla capacità musicale di un sogno di coinvolgere anche chi lo ascolta.
Che tipo di sogno musicale è il jazz?
Fingo di ascoltare quella serata come un sogno di jazz e vedo una magnifica dimora del sacro, l’Abbazia, ospitare una musica estremamente sensuale, pure così intimista da ricondurre ciascuno a se stesso, dentro se stesso, nell’interiorità così vicina a Dio, qualunque Dio, forse soprattutto quello che appunto si è “incarnato” per ricordarci che l’anima e il corpo sono un tutt’uno. Ci sta bene la musica jazz, così possente, nell’Abbazia. Il fiato immesso in un sassofono che diventa un’Opera d’arte, un anelito, una condivisione. Dalla bocca all’orecchio. Dal musicista a noi. Le mani così veloci sulla tastiera da far venire voglia di correre, un musicista alto e smilzo la cui energia sembra convergere tutta in un ritmo pazzesco. I suoi compagni ammiccano, sorridono, e uno di loro coglie al volo una nota e vi si aggancia ed è un’improvvisa deviazione del suono in un altro strumento, perché la musica segua un altro corso, sempre lo stesso, ma sempre un po’ diverso. Ma non è questa la vita di ciascuno di noi, come il jazz, una incessante variazione su uno stesso tema?
Mi accorgo, come spesso capita di fare con i sogni, che manca qualcosa. Questa scena di jazz è tutta al maschile. Cosa manca? La donna! Dimenticavo la vocalist! Accidenti! Noi donne che continuiamo a dimenticare noi stesse, catturate dall’evidenza e dallo scintillio degli strumenti: eppure la voce è lo strumento femminile per antonomasia, con la sua pasta, la sua materia, il suo timbro che possiamo considerare l’impronta digitale della voce, unico irripetibile…non è questa voce unicamente femminile, la continuità sonora che ci ha accompagnato per nove mesi, mentre si compiva nel corpo di una donna la più grande opera d’arte che sia mai stata concepita?
Ecco, questo è un sogno jazz fatto sulle note di Dream House, un venerdì sera, ospitati nell’Abbazia.
Filomena Rita Di Mezza
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