Da qualche giorno è in vendita “Samnes” un romanzo storico scritto da Antonello Santagata e ambientato al tempo degli antichi sanniti.

Un accurato quadro storico, testimoniato dalla ricca bibliografia presente alla fine del volume, e un’avvincente, appassionata e contrastata storia d’amore, offrono all’autore la possibilità di far rivivere la vita, l’organizzazione sociale politica, economica e religiosa dei nostri antenati nella loro quotidianità e nella plurisecolare lotta contro la nascente potenza di Roma.

Nei confronti dei sanniti i romani hanno sempre mostrato un giudizio offensivo, dispregiativo; il poeta Orazio li definiva “un popolo rozzo e bellicoso”.

Le testimonianze archeologiche e gli studi storici degli ultimi decenni dimostrano, invece, che ci troviamo di fronte ad un popolo con una complessa struttura sociale e politica, un sistema religioso ricco ed elaborato ed una notevole padronanza di tecniche sofisticate per la produzione di manufatti.

Da dove deriva, allora, il giudizio altamente negativo dei romani?

Poche popolazioni hanno sconfitto e messo in pericolo l’esistenza stessa di Roma; un solo popolo oltre a sconfiggerla l’ha umiliata in un modo cocente e feroce e questo popolo sono i sanniti. Le Forche Caudine rappresentano per l’Urbe il momento di massima umiliazione per la sua storia e i suoi uomini, ma anche il “peccato originale” di ogni sannita, da scontare attraverso il disprezzo e l’ingiuria. Roma terrà sempre presente, durante le sue conquiste, questa onta alla propria grandezza e per questo motivo si dimostrerà sempre magnanima nei confronti delle popolazioni vinte e rispettosa delle loro credenze, ma ricorderà e non perdonerà mai chi gli aveva inflitto quella umiliante lezione.

Ecco allora la damnatio memoriae dei sanniti, attuata presentando queste popolazioni come rozze, incivili, brutali, prive di cultura, dediti a comportamenti bassi e degradanti, indegni di ogni essere umano, di cui hanno dato prova inoppugnabile alle Forche Caudine. Non c’è stata, perciò, nessuna umiliazione, ma solo la manifestazione dell’istinto primordiale sannita.

Una popolazione brutale, violenta sempre pronta alla rivolta, alla distruzione, alla morte: è questo il giudizio dei vincitori.

I sanniti, invero, era un popolo di persone libere, non conoscevano la schiavitù, gelosi della propria indipendenza che difendevano sempre e ad ogni costo. Un popolo indomito che seppur sconfitto non fu mai sottomesso. Non piegarono mai il capo di fronte a Roma e questo fu la causa delle loro frequenti rivolte. Ma cosa aspettarsi da un popolo che anche nei confronti della morte aveva un gesto di sfida? Ebbene sì, nelle veglie funebri i familiari del defunto inscenavano un duello rituale per ricordare alla morte lì presente che non la temevano e che avrebbero continuato a sfidarla e a combatterla. E’ la famosa arte gladiatoria, che nel mondo sannita era un intenso rituale religioso, ma che i vincitori romani stravolsero e degradarono in un gioco circense e mercantile ad uso e consumo della plebe.

Le popolazioni sannite erano attaccate in modo notevole alla propria indipendenza personale, ma anche territoriale. I luoghi dove abitavano erano stati donati loro dalla divinità attraverso il rituale del Ver Sacrum: un ambiente originariamente ignoto, oscuro, pericoloso veniva popolato con nuovi insediamenti in seguito alla sosta di un animale sacro al dio e dalla presenza dei sacrati, uomini consacrati alla divinità stessa. L’ambiente diventava, perciò, sacro, abitato dalla divinità, e per questo noto, sicuro, vivibile. Era questo il motivo per cui i sanniti erano così attaccati alla loro terra, da difenderla a costo della vita. Guardate, ora, questa valle telesina, che conserva pressoché intatta l’originaria bellezza, la sua fertilità, la sua ricchezza di acque e avrete la risposta all’ostinata resistenza che gli antichi abitatori di queste contrade opposero ai conquistatori romani.

Tutto questo sistema complesso e raffinato di valori, credenze, usanze è raccontato da Antonello Santagata in modo chiaro, scorrevole, accattivante, attraverso le vicende e le vicissitudini amorose di Lucio, indomito gladiatore sannita, e di Lomea, bellissima ragazza sannita devota della dea Jana, nell’età che va all’inizio del I secolo a.C., di cui non anticipiamo nulla per non affievolire la curiosità del lettore.

E’ un bel libro, un’opera interessante, che ci connette con il nostro passato, una sorta di archeologia dell’anima collettiva, da leggere con il cuore e con il cervello: con il cuore per amare il nostro passato e il nostro territorio, con il cervello per individuare ragioni per il nostro futuro.

Nessun vento è buono per la nave che non conosce rotta. (Seneca)

Angelo Mancini

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