L’ottimo ing. FLAVIO RUSSO, membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto Italiano dei Castelli, si è sempre occupato a tempo pieno di storia militare, ivi compresa quella dei sanniti. Nel suo libro DAI SANNITI ALL’ESERCITO ITALIANO La regione fortificata del Matese, ricostruisce la tipica struttura difensiva dei sanniti che trasformavano le montagne in vere e proprie fortezze.
”Alture trincerate”, le chiamò Mommsen nel II volume della sua Storia di Roma: “Durante la campagna del 277 a.C. si andò guerreggiando nel Sannio, dove una volta i Romani assalendo, alla spensierata, delle alture trincerate ebbero a soffrire gravi perdite”.
Dalle sue ricerche sulle fortificazioni del Tifernum Mons, come veniva chiamato il Matese scelto dai Pentri come residenza, sembra quasi che l’Ingegnere, già membro del Comitato Nazionale per lo Studio delle Architetture Fortificate del Ministero dei B.C.A.A.A.A., anticipi la descrizione del terrazzamento di Monte Cigno che, solo qualche mese fa, ho avuto la “fortuna” di individuare da foto satellitari estremamente elaborate.
E così, se dalla lettura “in latino” di Ab Urbe condita di Tito Livio relativa ai luoghi detti Furculas Caudinas sembra di scorrere una guida del TCI relativa alle Forre del Titerno, dalla lettura delle ineccepibili considerazioni di Flavio Russo del 1991 sembra emergere la descrizione dei terrazzamenti di Monte Cigno…che farebbero pensare alla Tutium rouinata emersa in una mappa del Vaticano.
Le fortificazioni sannite, ma sarebbe meglio dire dei Pentri che spesso, da soli, sostennero il peso delle lotte contro Roma, si trovavano a mezza costa, appena distaccate dalla pendice sovrastante della montagna, verso la quale gravitavano sia in tempo di pace che massimamente in quello di guerra. Fornivano una superficie interna non raggiungibile da eventuali aggressori, penetrabili unicamente attraverso un varco di ridotte dimensioni. Grazie ad ingegnosi schemi planimetrici divenne possibile a pochi “guerriglieri” sanniti aver ragione dei molti ed addestrati guerrieri romani. Alla logica militare romana sembrò uno schieramento difensivo quasi demenziale, non comprendendo che la struttura e la difesa “esterna” alle mura era invece intelligentemente funzionale alla loro arma più temuta e micidiale: la sannia. I romani conoscevano infatti la lancia, ma quella sannita era di tipo diverso per l’adozione sistematica dell’amentum, una “turbina” che aumentava le capacità delle proprie lance: le saunia. ” Samnites ab hastis appellati sunt, quas Graeci saunia appellant; has enim ferre adsueti erant; sive a colle Samnio, ubi ex Sabinis adventantes consederunt“. De Verborum Significatione SESTO POMPEO FESTO
“I Sanniti sono così chiamati dalle loro lance, che i greci chiamano saunia; infatti loro erano soliti portare queste armi in battaglia; o dal colle Sannio dove si stabilirono provenendo dai colli Sabini“. I “rozzi?” pastori, scagliandole dall’alto delle loro “piattaforme” di lancio, i terrazzamenti, poterono infliggere gravissimi tributi di sangue agli atterriti assalitori. La sannia non riceveva l’impulso motore dal palmo della mano al suo rilascio analogamente alle usuali lance, ma attraverso la violenza sferzata dell’amentum, una sorta di spirale di cuoio che avvolgeva la lancia e che srotolandosi generava, al suo rilascio, velocità, precisione e forza. L’ Amentum contribuiva ad aumentare la portata e la stabilità del giavellotto in volo poiché aggiungeva un effetto di rotazione che emula quello di un proiettile e aumentava enormemente la possibilità che il giavellotto colpisse correttamente di punta. Una sorta di canna rigata ante litteram delle moderne carabine. Una straordinaria innovazione che forniva a quel singolare giavellotto le impressionanti doti di mortifera validità funestamente sperimentata dai romani. Nel preciso istante in cui gli attaccanti penetravano all’interno del tiro, la fila più bassa scagliava una salva di dardi mortiferi, seguita a breve intervallo da quella più in alto, che completava la strage. Nessuna possibilità per i nemici di controbattere i lanci sia per la notevolmente minore portata delle proprie lance, sia per essere il loro controtiro diretto verso l’alto.
“ …non è difficile immaginare le modalità difensive derivanti dalla complementarietà fortificazioni-sannie, scrive il Russo. Le ondate d’assalto romane lanciate lungo le ripide pendici dei monti del Sannio, ed al contempo i difensori immobili, schierati in duplice ordine su ogni loro sbarramento poligonale, pronta a brandire la terribile arma. Infatti, prescindendo che le mura sannite non avevano un “dietro”, era proprio stando dinanzi ad esse e su di esse, cioè davanti alla parete a monte sopra di quella a valle, sul famoso gradone, che poteva scagliare in maniera ottimale la sannia, attuando il massimo della difesa… allorché poi i romani giungevano a portata utile iniziava su di loro la mortale grandine: impossibile difendersi, inermi, impacciati dalla salita e dall’equipaggiamento (il loro terreno di battaglia preferito era la pianura!), privi di tiro di copertura, sparsi ed atterriti dalle perdite, subivano così la prima tragica decimazione…. Le fortezze sannite potevano essere scavalcate ed anche conquistate, ma una volta qui, gli attaccanti spossati si trovavano di fronte i difensori, riposati e determinati a respingerli. Si sarebbero inoltre trovati esposti al tiro proveniente dai margini laterali del ballatoio, cioè il micidiale fiancheggiamento, proseguendo per altro quello piombante dall’alto. La ristrettezza degli spazi ne avrebbe per di più amplificato la virulenza, e quindi la validità difensiva. Evidentissime le immani difficoltà connesse con questa tragica e sanguinosa corsa ad ostacoli. … Qualora poi, e certamente accadde, i Romani fossero riusciti ad impossessarsene, si ritrovavano occupanti di una scabra terrazza di roccia deserta, spazzata dal vento, dalla quale i sanniti si erano all’ultimo momento dileguati inerpicandosi per le mulattiere a monte verso l’interno del massiccio”….ed ecco spiegato l’ampio tratturo che dalla cittadella apicale del terrazzamento all’incrocio del Turio e del Titerno si inerpica verso Il tempio e verso la Rocca… “...ma è tutto il pendio, rileva Claudio Conte, che a partire dal basso vicino al salto del torrente Turio a presentare gradinate poi giunge sul primo pianoro e lì sul limite, a sbarramento, c’è un muro larghissimo, poi a sx della strada ricomincia la successione dei terrazzamenti fin sopra la spianata…”.
Sembra proprio che “TUTTA” Monte Cigno sia una autentica roccaforte, un vero baluardo insuperabile anche per chi abbia superato il primo sbarramento sannita tra Mont’Acero e Mont’Erbano nella gola di Faicchio.
Tuto questo si legge nelle pietre di Monte Cigno. Tutto questo io pubblico con la speranza di destare l’interesse di qualcuno più grande di me per queste meravigliose pagine di storia locale che potrebbero far risvegliare nei giovani l’orgoglio di essere sanniti, al di là del valore indiscutibile di un risultato sportivo quale la promozione del Benevento. Dall’imbocco delle gole, a Faicchio, fino a Pietraroja e Sepino, si combatterono decisive battaglie per il controllo del mondo allora conosciuto. E l’Oppidum di Monte Cigno ne conserva INTEGRE le tracce (solo tracce?….molto, molto di più!), che poi proseguono fino a Sepino, passando per quello scrigno che è la Madonna della Libera e Vallantico. So che lo scetticismo è dominante…ma “così è, se vi pare”, scriveva Pirandello, riflettendo sull’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli altri.
Una pietra è solo una pietra se non ha una storia da raccontare.
Renzo Morone