
C’rrit (Cerreto Vecchia) fu costruita, per la seconda volta, intorno al 1000 dai sopravvissuti ai terremoti che avevano martoriato Cominium Ceritum e Telesia (848, 1125 e 1349, l’anno della fuga anche dei Vescovi da Telese), nonché dalle devastazioni turche nella valle (860). Probabilmente C’rrit fu ricostruita sullo stesso sito di Cominium visto le stratificazioni venute fuori dai recenti scavi archeologici. Cinta da possenti mura come tutte le città medioevali, aveva quattro porte di accesso: porta Sant’Antonio, di Suso, dell’Ulmo e, infine, porta Gaudiana, verso San Giovanni, ove erano le gualchiere e una bottega ceramica. C’erano inoltre altri accessi secondari: le postierle, cioè le anguste porte d’accesso ai camminamenti per le guardie e , soprattutto, i suggestivi gafi. Erano questi i passaggi pedonali sottostanti le abitazioni, costruiti soprattutto per livellare il terreno in pendio e realizzare poi, su un sito reso pianeggiante, una o più case. Contemporaneamente i gafi erano utilizzati anche come stradine di accesso, degli ingressi “secondario” al cortile della casa o del gruppo di case che servivano. A Cerreto sono venuti alla luce quello sottostante la Chiesa di San Martino e quello del Castello. Potremmo paragonarli ai magnifici supportici di San Lorenzello… ma l’ sono delle vere e proprie strade coperte. Ma tante porte creavano qualche problema: avevano bisogno di un responsabile che ne curasse l’apertura e la chiusura, onde evitare che, tocca a me, tocca a te…le porte rimanessero pericolosamente aperte di notte.
Ecco allora la figura del “mastroportulano”, l’addetto che, in epoca feudale, era incaricato di serrare quotidianamente le porte e garantire l’indispensabile isolamento notturno dal mondo esterno, funzionale principalmente alla salvaguardia della popolazione sia dai pericoli delle bestie feroci che spesso arrivavano fin dentro le città, che dalla malvivenza. Inoltre, per quanto possibile, a respingere in ogni momento gli assalti di squadre militari nemiche e dei saraceni le cui incursioni si spingevano fin nell’entroterra. Il “dipendente” aveva quindi il delicato compito di garantire una sicurezza “DOC”, visto anche il livello dei personaggi che furono ospitati tra le mura cerretesi: da Luigi d’Angiò che qui cercò rifugio nel 1382 a Suor Giulia de Marco, la Monaca di Monza del Sud che qui fu rinchiusa dall’inquisizione nel 1606 dando origine, probabilmente, alla leggenda della “N’zilla”, l’affascinante creatura che, nella notte di San Giovanni, compariva, in abiti discinti, sulla bocca dell’antro sottostante la Chiesa di San Giovanni ballando e facendo sbavare gli increduli villici che ammiravano il gradito spettacolo dal ponte.
Il mastro-portulano, oltre alla funzione di sorveglianza, con il tempo ne assunse delle altre, tanto che in ogni città si rese necessario regolamentarle inserendo nei capitoli delle ordinanze, consuetudini e grazie degli Statuti cittadini, dei paragrafi specifici riguardanti la “portulania”. Così fu a C’rrit ove la “portulania” fu trattata adeguatamente nelle grazie del 27 maggio 1571 accorpate agli Statuti in vigore dal 1541. In tale contesto di borgo circondato da mura si concesse all’Assemblea dell’Università (Eletti e Consiglio) l’elezione del “mastroportulano” che durava in carica un anno al termine del quale, assoggettato a sindacato dell’Assemblea, era tenuto a dare conto dell’esercizio della propria gestione ed esazione delle pene pecuniarie. Sottolineo: nel 1571 un dipendente “comunale”, annualmente, doveva rendere conto del suo operato, e del relativo stipendio, agli Amministratori.
Il mastroportulano, poiché girava sempre per le strade, aveva anche il compito di “vigilare”, provvedendo alla manutenzione e pulizia delle strade pubbliche e di riscontro degli abusi edilizi dei cittadini “che con scale e gradi hanno occupato il pubblico suolo e strettuta la piazza”. Infine, su mandato del feudatario su istanza dell’Università, doveva occuparsi anche di dare esecuzione alla demolizione da parte dei proprietari di scale scoperte e “gaifi” abusivamente realizzati.
Inoltre gli fu conferita qualifica di pubblicare bandi per i cittadini interessati per quanto riguardava la manutenzione gratuita della zecca di pesi e misure da effettuarsi compensando il consumo di essi per l’uso con l’aggiunta di “zecche” di piombo, in modo da ripristinare il preciso peso primitivo, evitando così una piccola frode in commercio. Siccome quest’ultimo ufficio di “zeccatore” spesso veniva confondendosi con quello riservato ai catapani che vigilavano sull’annona (giusto peso e misura, prezzi come da tariffa prefissata), tale problematica trovava opportune chiarificazioni negli Statuti stessi. Infatti veniva comunque precisato che tutti gli strumenti di peso (bilance, stadere, pesi ecc.) e di capacità (caraffe, quarti, tomoli, ecc.) dell’Università, come campioni di riferimento, fossero conservati dai catapani deputati per evitare frodi ed estorsioni possibili, ma sia questi che i portulani dovevano prestarli ai venditori e compratori senza impedimento o proibizione alcuna.
Ai trasgressori delle direttive contenute nei suddetti bandi e di tutte le altre concernenti il suo ufficio, il mastroportulano applicava pene pecuniarie previste negli Statuti e dove non fossero contemplate con un importo non oltre un certo massimo stabilito.
Con la terza Cerreto ideata dopo il terremoto del 5 giugno 1688, nell’ultimo scorcio del feudalesimo, visto che la “Città Nuova” fu concepita aperta, senza mura difensive e relative porte, al mastroportulano fu affidato dai Carafa l’ufficio di “mastro di zecca”. Venne cioè abilitato a zeccare i panni (bollatura “cum sigillo plumbeo”), a garanzia della manifattura locale, qualità e dimensioni, ricevere le rivele dei commercianti (autocertificazione unica familiare, professionale e reddituale ai fini tributari), dare loro i bollettini etc., esplicando così funzioni delicate, come colui che regolava i complessi rapporti economici tra il feudatario e il ceto dei mercanti di panni.
Bella organizzazione, soprattutto a tutela della legalità, non c’è che dire!
Lorenzo Morone