Le grotte di Frasassi sono una serie di grotte carsiche sotterranee che si trovano nel territorio del comune di Genga, in provincia di Ancona.
La scoperta della prima Grotta, detta “Grotta Grande del Vento” perché scoperta grazie ad un ondeggiare sospetto dell’erba visibile in superficie e prodotto da un venticello proveniente dal sottosuolo, fu fatta il 25 settembre 1971 da Rolando Silvestri e dal Gruppo Speleologico Marchigiano CAI di Ancona.
L’anno dopo venne costituito il “Consorzio Frasassi” tra il Comune di Genga e la Provincia di Ancona, con l’obiettivo di salvaguardare e valorizzare le grotte e il territorio comunale entro cui si trovano. Costituito il Consorzio, in soli due anni fu costruita una galleria artificiale di oltre 200 metri, che conduceva all’ingresso della Grotta Grande del Vento, e poi all’interno fu tracciato un comodo percorso di circa 600 metri aperto al pubblico dal 1° settembre 1974. Un miracolo? Penso semplicemente ad un traguardo in cui credevano! Da allora il percorso si è sempre più arricchito e milioni di turisti continuano a visitare questi luoghi con un introito economico notevolissimo che, nel giro di pochissimi anni, ha trasformato l’economia di tutta la valle trattenendo i giovani non più costretti ad emigrare. Intelligentemente, poi, il biglietto di ingresso alle Grotte da la possibilità di visitare altri due musei: Il Museo di Arte Sacra nel vicino borgo di Genga, e il Museo archeologico a San Vittore Terme. Un bel modo di fare sistema, vero? E tutto in 5 anni. “Cott, ullut e magnat”, come si dice dalle nostre parti.
La descrizione delle grotte? Eccola:
“All’interno delle cavità carsiche si possono ammirare delle sculture naturali formatesi ad opera di stratificazioni calcaree nel corso di 190 milioni di anni grazie all’opera dell’acqua e della roccia. L’acqua, scorrendo sul calcare, discioglie piccole quantità di calcare e cadendo a terra, nel corso di uno stillicidio che dura millenni, le deposita e forma delle concrezioni di notevoli dimensioni e di forme a volte anche curiose. Queste si dividono in stalagmiti e stalattiti . Le forme e le dimensioni di queste opere naturali hanno stimolato la fantasia degli speleologi, i quali dopo averle scoperte le hanno “battezzate” denominandole in maniera curiosa; tra le stalattiti e le stalagmiti più famose ricordiamo: i “Giganti”, il “Cammello” e il “Dromedario”, l’”Orsa”, la “Madonnina”, la “Spada di Damocle” , “Cascate del Niagara”, la “Fetta di pancetta” e la “Fetta di lardo”, l’ ”Obelisco” , le “Canne d’Organo” , il “Castello delle Streghe”. All’interno delle grotte sono presenti anche dei laghetti in cui ristagna l’acqua dello stillicidio e dei “pozzi”, cavità cilindriche profonde fino a 25 m che possono raccogliere l’acqua o convogliarla verso piani carsici inferiori…”.
La grotta dei Briganti è la prima di una serie di grotte carsiche sotterranee che si trovano sotto Monte Cigno. Fu scoperta il 6 agosto 1935 da una comitiva di esploratori dilettanti, capitanati dal Dott. Mimì Franco e dal prof. S. Mastrobuoni. La scoperta della prima grotta, detta “Grotta Chiusa” perché accessibile solo da un ingresso stretto e sinuoso, fu subito segnalata dagli scopritori all’Istituto Speleologico Italiano di Postumia. Seguì, nel 1957, una pubblicazione, sempre a cura di Don Mimì Franco, : “I fenomeni carsici del Monte Cigno”, opera ristampata dalla Pro Loco nel 1997 con la regia di Nino Cofrancesco. Nel 2000 La grotta dei Briganti fu inserita nella Guida turistica di Cerreto “Una passeggiata nella storia”, con la speranza di destarne l’interesse che ne favorisse lo sfruttamento turistico rendendola visitabile, visto che l’ingresso, a differenza di Frasassi, era a portata di mano. La speranza era in un Ente sovraccomunale quale la Comunità Montana che, in precedenza, non aveva problemi a ricevere finanziamenti per strade e/o acquedotti pluri-miliardari, opere che si pensava potessero costituire il volano della nostra economia. Nel 2004, con degli amici, visitai solo la prima grotta, detta la “Cattedrale” perché, coraggiosamente, mi fermai là con Franco “Bombalà”. Gli altri, nella giovanile incoscienza, si allontanarono tornando solo dopo un paio d’ora di cammino, a riprova di quanto siano estese le grotte. Erano arrivati fino ad un laghetto che si scorgeva in profondità.
Ecco la descrizione delle stesse fatta da Don Mimì il cui nome si onora si dedicandogli una strada, come abbiamo fatto, ma lo si farebbe ancora di più sfruttando le sue scoperte.
“A circa 500 metri di altezza dalla valle e quasi a 200 metri al disotto della Rocca del Cigno, si trova una grande grotta con l’entrata verso le ultime sporgenze, che si presentano a picco.
Molto stretto e sinuoso ne è l’ingresso, che obbliga il visitatore a prostrarsi completamente, per entrarvi strisciando lungo un tratto di circa tre metri. Superato l’aspro e difficoltoso ingresso, si scorge il primo cunicolo, che si allarga a forma di imbuto e da accesso ad una prima sala.
Questa, dal lato sinistro, è fortemente accidentata con fossati più o meno profondi; dal lato destro, invece, prende forma di un androne, di altezza variabile dai due ai quattro metri e largo circa tre, dalla cui volta pendono numerose stalattiti, di colore ocraceo e poliforme: svelte e sottili alcune, mammellonati altre.
Fangoso e lubrico il terreno; pungenti le stalattiti che pendono dalla volta e che obbligano a curvarsi. La Grotta Chiusa del Monte Cigno, una specie di loggiato, con panneggiamenti e concrezioni calcaree, trovasi a destra; l’angolino colpisce per le stalagmiti a forma di anfore, di fattezza così perfetta, da sembrare messe lì da una mano intelligente per abbellire il sito. Sulla parete di fondo di questa prima sala, a due metri dal piano di terra, attraverso uno squarcio della roccia, si accede alla seconda sala.
Faticoso ne è il passaggio, perché occorre puntarsi bene sulle stalagmiti e spingersi in alto.
Anche questa seconda sala è ricca di stalattiti e stalagmiti, che qua e la si congiungono formando colonnati e pilastri. Le pareti, concrezionate e finemente decorate, appaiono come merletti e lunghi panneggiamenti che scendono dall’alto per celare le altre meraviglie dell’antro.
Sulla destra, a guisa di un immenso scenario dantesco, poco larga ma alta oltre i 20 metri, ricchissima di stalattiti più o meno grandi, che percosse danno un suono argentino, si presenta una grande caverna, detta dalla comitiva “la Cattedrale” per le sue ampie proporzioni.
Più ricchi i colonnati stalattitici, molti i panneggiamenti e le concrezioni calcaree. Sul fondo della “Cattedrale” una fenditura da l’impressione che la grotta prosegua e si sviluppi ancora.
Sul lato sinistro, per un inghiottitoio quasi verticale, profondo circa quattro metri, si accede ad un cunicolo lungo circa sei metri, disposto secondo l’asse maggiore della medesima, terminante in una piccola rotonda, chiamata del “Coccodrillo”
Vi regna un silenzio profondo, rotto solo dal tic-tac lento e monotono di qualche goccia che cade dall’alto e da un leggiero, quasi impercettibile, fruscio di acque cristalline e pure, scorrenti nelle profondità inesplorate del monte. Fuori, invece, il mormorio del sottostante Titerno, che continua instancabile la sua azione edace tra le meraviglie ed il “Bello Orrido”, fa contrasto con la goccia d’acqua. Due eterni fattori in continua lotta: chi costruisce e chi demolisce!”.
Potremmo invertire le descrizioni, il risultato non cambierebbe: le grotte sembrerebbero fratelli-gemelli. Solo che uno ha avuto la fortuna di essere adottato da una famiglia Anconetana, l’altro…. da una Beneventana. Forse la differenza è tutta qui!
“Le opere, i progetti, bisogna prima amarli, poi crederci e quindi realizzarli”. Secondo me.
Lorenzo Morone