Vorrei tanto sbagliarmi, ma ho la sensazione che nella vicenda della piccola Maria – trovata morta in una piscina a pochi metri dalle giostre durante la festa di sant’Anselmo dell’anno scorso – e che, a distanza di un anno non riesce a trovare una benché minima soluzione, entrano in gioco elementi diversi, certamente meritevoli di unanime censura, che ne impediscono la risoluzione.

Ho la sensazione che, dopo il cordoglio momentaneo e dopo l’attenzione mediatica che le è stata riservata nei giorni immediatamente successivi all’evento, la tragedia della povera Maria stia tristemente incamminandosi verso un oblio collettivo che tende inconsciamente a rimuovere il ricordo e a sbiadire la memoria collettiva.

Questo fenomeno è abbastanza consueto in un paese e in una comunità dalle profonde radici tradizionali come la nostra, dove l’istinto di autoconservazione e la rivendicazione di valori antichi (e sotto certi aspetti desueti) porta a rimuovere eventi che turbano il cuore e le menti delle persone. Eppure dovrebbe essere il contrario.

Una società che tende ad attribuirsi una sua storica estraneità a fatti delittuosi, soprattutto se così efferati e violenti, dovrebbe esigere un rapido chiarimento, un’immediata rimozione dell’onta che sporca le coscienze di un’intera comunità.

Invece, trascorso il clamore mediatico e la pelosa curiosità dei primi momenti, tutto sembra essere rientrato nell’alveo della vita comune, destinato all’oblio di una collettività che tende a metabolizzare tutto ciò che osserva e di cui, probabilmente, si vergogna.

Accade così che il corteo, le fiaccolate e le lacrime di convinta solidarietà umana diventano solo un ricordo lontano.

Intendiamoci, i cittadini non è che possano fare granché, se non tenere desta l’attenzione su un episodio che ha sconvolto le coscienze dei più.

Ci sono invece alcuni che potrebbero fare qualcosa, ma costoro mostrano di non averne più l’interesse.

Nei primi giorni c’è stato l’assalto del solito circo equestre, fatto di noti cronisti della morte (quelli che, come le api intorno al fiore, impollinano ogni tragedia alla ricerca di improbabili scoop, di notizie di prima mano, di particolari morbosi e piccanti); la gente ha accolto e ascoltato in diretta televisiva famosi principi del foro e solerti criminologi che, alla spasmodica ricerca di un microfono, hanno sapientemente dispensato la loro scienza mostrando di conoscere tutto alla perfezione, senza alcuna concessione all’incertezza e senza un briciolo di ripensamento. A costoro l’esercizio socratico del dubbio non li ha mai minimamente sfiorati.

Tutto questo a telecamere accese, quando l’inquadratura era quella giusta e la luce dei riflettori attenuava gli inestetismi coperti da due dita di cerone.

Poi, a motore spento, si sono dileguati alla chetichella. Come se non fossero più fatti loro.

E purtroppo, come accade in questi casi, il dolore e il lutto, ritornano ad essere un fatto privato: lo strazio di una madre e l’incubo di un padre a cui vengono negate le risposte.

Persino la Giustizia se la prende comoda; l’ultima udienza presso il Tribunale del riesame è saltata perché mancava l’avviso di notifica per gli indagati.

La televisione è sparita. Ci sono state decine e decine di trasmissioni sul ritrovamento di Elena Ceste; sulla storia infinita di Avetrana; sulla complicata vicenda familiare di Roberta Ragusa. Ma per la piccola Maria non c’è spazio.

Forse perché si chiama Ungureanu: un cognome che viene da lontano e, dal punto di vista linguistico, risulta meno familiare e probabilmente meno appetibile ai professionisti della cronaca nera. Se è questo il motivo, dovremmo sentirci tutti più colpevoli.

Emilio Bove

(medico della piccola Maria)

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