
I Sanniti, dalla vita piuttosto nomade e prevalentemente dediti alla pastorizia, si possono immaginare topograficamente divisi in tribù, nella loro lingua dette « touta » ossia nuclei etnici affini, di preferenza concentrate sulle falde delle montagne (ad vicatim scrive Livio), protetti da cinte fortificate e lungo le vie di comunicazione: i tratturi. Questi villaggi, che i latini chiamavano « vici », si articolavano in quella specie di unità territoriale già ricordata e detta touta. Tali «vici», trovati in quantità industriale lungo la direttrice Sepino-Cerreto, tra i Mastramici e Morcone, oltre a tenere unita la gente rurale assumevano anche la funzione di mercati, perché ubicati in posti ove dovevano necessariamente transitare gli armenti nel corso della transumanza. Erano, cioè, località ove si scambiavano prodotti agricoli ed artigianali. Pertanto i Sanniti non conobbero giammai quegli insediamenti che abitualmente si definiscono comunità urbanizzate, intese cioè come complessi di servizi pubblici e soprattutto privati. In questi territori urbanisticamente inarticolati l’espressione delle diverse comunità o touta si manifestavano esclusivamente nei santuari i quali non si limitavano, come comunemente potrebbe credersi, ad instaurare soltanto rapporti fra divinità e credenti, ma svolgevano soprattutto quelle attività cosiddette di rappresentanza perché assolvevano ad importantissime funzioni sociali. Le diverse tribù, convenendo nei santuari, riaffermavano anche, e soprattutto, l’esistenza di tradizioni e di interessi comuni e le cerimonie religiose che vi si tenevano servivano anche a rinsaldare la propria unione e la propria libertà. Un altro importante ruolo del santuario era quello di favorire la circolazione interna ed esterna, ragion per cui doveva essere facilmente accessibile mediante le strutture viarie dell’epoca: i tratturi. Ecco perché nel Sannio, come presso tutti i popoli detti Italici, i santuari erano piuttosto numerosi e sparsi un po’ dovunque; naturalmente imponevano il proprio controllo sulle comunità circostanti perché costituivano il punto di unione tra funzioni politiche. Pertanto assicurarsi il controllo su di un santuario qualsiasi significava affermare la propria autorità sul territorio in cui sorgeva. Da quanto detto, sia pure brevemente, si arguisce chiaramente che il santuario rappresentava l’elemento portante della struttura territoriale italica, e quindi sannitica, non soltanto amministrativa, politica ed economica ma anche militare perché ivi si davano convegno le più alte cariche o per coordinare una difesa comune in caso di pericolo oppure per dichiarare la guerra.
Tutte le attribuzioni demandate a questi santuari, che possiamo definire di importanza locale, venivano opportunamente coordinate in sede di riunione dei capi delle diverse tribù, riunioni che avvenivano in un santuario di importanza federale, il quale risulta archeologicamente ed epigraficamente localizzato nel territorio di Pietrabbondante, ove si davano convegno i componenti dei più grandi istituti amministrativi della federazione sannitica, come si legge in numerose iscrizioni osche là rinvenute, per adottare tutti i provvedimenti riguardanti l’intera collettività. Dal “portale” della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise, si apprende che i santuari riportati alla luce nel Sannio Pentro sono ubicati in: Vastogirardi, Pietrabbondante, Schiavi d’Abruzzo, Campochiaro, Sepino e San Giovanni in Galdo. Manca il nostro, quello della Madonna della Libera, perché Cerreto e la sua storia furono trasferiti, per me inopinatamente, in Campania. Cosicchè siamo stati trascurati da entrambe le regioni: dalla Campania perché zona periferica, interna rispetto a Napoli, dal Molise perché…extracomunitari. Ricordo così sommariamente quanto che il tempio Italico di Cerreto Sannita si trova(va) nel versante meridionale di Cominium, il pagus che, con Saipins, venne distrutto dai Romani nel 293 A.c., chiara vendetta dopo l’umiliazione delle forche Caudine di qualche anno prima. Cominium Ceritum e Saipins, due cittadelle fortificate dello stesso Pagus! Una nel versante orientale del Matese (Mons Tifernus), l’altra in quello Orientale. E in mezzo? Tanti, tanti insediamenti con recinti e tratturi, alcuni dei quali ancora presenti così come realizzate 2000 anni fa. Il santuario, luogo di preghiera e di riunione (Cominium= riunione) fu costruito a ridosso di un pendio, lungo una delle strade principali dell’epoca, il tratturo che collegava la pianura Campana a quella Dauna, attraverso Cominium,Vallantico-Pietraroja, Saipins, in una zona ricchissima di acqua. Il periodo di edificazione risale al II secolo a. C., ma reperti archeologici rinvenuti durante gli scavi di qualche anno fa, e documentati dalla Soprintendenza Archeologica di Salerno, testimoniano frequentazioni più antiche, riferite al IV-V sec. a. C.. Non è possibile accertare con precisione la divinità a cui era dedicato il tempio che, se fin’ora chiamato di Flora, vede ipotesi più accreditate che danno per certa la dedica ad una divinità femminile, Mefite, protettrice della sfera della maternità, degli affetti domestici, della procreazione e, più in generale, della fertilità delle messi, dei pascoli, degli armenti.
Lorenzo Morone