“Ti piace questa foto?”, mi chiede la mia amica G., lasciandomi guardare meno di tre secondi e spegnendo altrettanto velocemente il cellulare. “Non ho visto bene” le dico sorridendo un po’ sadicamente al suo pudore. Pazientemente, come solo un’amica può fare perdonando l’insolenza, riaccende il cellulare, ricompare la foto (una delle più belle che abbia scattato, sento questo, ma al momento non saprei spiegarlo). “Sembra un quadro” le dico. “Me la stampi per favore?”.
Scrive Carlo Riggi che lo scatto dell’otturatore è quel preciso istante in cui un pezzo di mondo è morto ed è rinato altrove. Forse è anche per questo che un tempo si usava dire indifferentemente fotografare o immortalare, cioè non tanto perché lo scatto fermava per sempre un istante, regalandogli eterna durata, (quella appunto è l’eternità!, il permanere di una cosa identica e a sé stessa), quanto piuttosto perché se uno scatto è veramente di qualità, quel pezzo di mondo rinascerà continuamente altrove, nei pensieri, negli affetti, nelle parole dello spettatore e in questo senso non potrà morire mai! L’immortalità è dunque il potere di qualcosa di rianimarsi e di rianimare chi la incontri. Una specie di trasfusione reciproca di vita, direi. La foto di G. ritrae un nostro comune amico, O., che lavora da diversi anni a Telese. Ha il suo negozio al Quadrivio (del Quadrivio, poi, potremmo parlarne, perché ci sono paesi che hanno la Piazza ed altri come il nostro che articolano il proprio centro con un Quadrivio, il che ha una certa influenza sull’anima dei luoghi!). Comunque, O. dal Quadrivio non si è mai spostato, giusto ha traslocato all’altro lato della strada quando ha avuto la necessità di ampliare il locale. Ricordo ancora una nostra breve chiacchierata sul dispiacere di dover lasciare quella piccola stanza dal soffitto alto e a volta, sebbene continuasse ad averla ad un passo dal naso. Un nostalgico, O., senza dubbio, dedito a dipingere delicati fiori o arabeschi o delicatissimi intrecci sulle cornici, cornici che talvolta vengono acquistate bastando a se stesse, appese al muro in quanto oggetto d’arte di per sé. Quando vuole dirti qualcosa che gli sta particolarmente a cuore, O. ha l’abitudine, senza accorgersene, di rallentare un po’ le parole e di dare ad esse una cadenza più dolce mentre cerca il tuo sguardo, quasi ad assicurarsi, prima di andare avanti, che tu abbia capito che ti sta consegnando un suo pensiero più intimo, vero. Come quella volta che mi ha raccontato una storia della sua famiglia legata ad un anello magnifico che mi aveva incuriosito, e nell’ascoltare mi è sembrato che mi avesse condotto oltre una porta, introducendomi in un altro mondo, in un altro tempo. D’altro canto, cos’ è una cornice se non l’ouverture del quadro, la preparazione dell’atmosfera più opportuna per introdurti all’opera, una sorta di recinto sacro verso il contenuto che deve custodire? Si può mai realmente sganciare ciò che si fa da ciò che si è? Non credo. Ciò che si fa, il modo in cui lo si fa, allo stesso tempo forgia la persona che vi si dedica, soprattutto in mestieri che conservano una dimensione artigianale, il legame paziente e meticoloso con la propria opera, senza fretta, quotidianamente, con il flusso della vita che scorre accanto e dentro quello che stai facendo. Qualche volta mi è capitato di entrare nel negozio di O. e di trovarlo al lavoro, concentrato, attivo, mentre nel retrobottega due o tre amici, con un cane accovacciato ai loro piedi, chiacchieravano seduti, come in un ambiente domestico. Scene di altri tempi, quando la propria bottega era un luogo di lavoro, ma anche di accoglienza naturale di chiunque volesse fermarsi a chiacchierare, non solo comprare, ma guardare, partecipare con consigli talvolta fastidiosamente assurdi, o incredibilmente puntuali.
E ora riguardate lo scatto di G.: non vi sentite spinti ad avvicinarvi, quasi ad entrare un po’ più dentro, con la sensazione che O. possa da un momento all’altro alzare lo sguardo su di noi? che quel pezzo di mondo sia li lì per rianimarsi, per rianimarci? come bambini che sanno godere l’illusione che anche gli oggetti, come una bellissima foto, hanno vita. Piccole prove di immortalità.
Filomena Rita di Mezza
(foto di Grazia Di Mezza)