Il consiglio dei ministri, accogliendo la richiesta di stato di calamità naturale formulata dal capo del dipartimento della Protezione Civile, ha stanziato 38 milioni di euro per i danni provocati nel territorio sannita dall’alluvione del 15 ottobre scorso. Di sicuro sono pochi, si parla di centinaia di milioni di euro di danni, ma rappresentano un importante banco di prova per gli amministratori dei comuni danneggiati. Oggi, nonostante il dolore, la paura, la disperazione ancora persistenti, possiamo tirare un sospiro di sollievo per un conto tragico di vite umane che poteva esserci e che fortunatamente non c’è stato. L’acqua, che ha distrutto case ed attività economiche, ha portato alla luce 40 anni di cattiva gestione del territorio: incuria, progettualità carente, vigilanza insufficiente, assenza di qualsiasi prevenzione sono corresponsabili, almeno quanto l’enorme massa d’acqua riversatasi in poche ore, della devastazione che è ancora sotto i nostri occhi. Ma non è mancata solo la politica, senza volerla assolvere, è mancata la sensibilità e l’agire di tutti. E allora, prima di utilizzare i fondi appena stanziati e quelli che si spera saranno ulteriormente messi a disposizione, abbiamo bisogno di una nuova visione sociale e culturale. Non basta pensare alla ricostruzione, a nuove opere infrastrutturali, occorre primariamente ripensarci come elementi del territorio: solo così potremo evitare nuovi disastri per il futuro. In questi ultimi anni il Sannio è stato considerato dai suoi stessi rappresentanti solo come una terra da attraversare, alta velocità, raddoppio della BN-CA, interporto, o da sfruttare, eolico, trivellazioni; la territorialità, a parte qualche rigurgito nostalgico e sentimentalista, era avvertita solo in termini economici. L’uomo ha smarrito ciò che aveva acquisito con la “stanzialità”, quel rapporto profondo con la vita rappresentata dalla terra, dalla sua forza, dai suoi frutti, percepita non più come estranea ma come madre. Quel legame profondo, simbiotico è stato sostituito da uno scambio asettico basato sul denaro, sul profitto: la terra non dà più vita, ma deve produrre utilità. Siamo ritornati a quella dimensione nomade dell’antichità, di puro sfruttamento: quando una terra, depredata ed impoverita, veniva abbandonata per cercarne un’altra più ricca. E’ questo mero utilizzo del territorio, fatto di sfruttamento, spoliazione, deturpazione, avvelenamento, che va contrastato. Dobbiamo capire che noi non siamo altro dal posto dove viviamo, ma uno dei suoi elementi. Pensandoci territorio eviteremo che i nuovi disastri si sommino ai vecchi e alle nuove generazione di rivivere gli incubi e il dolore di una notte di metà ottobre dell’anno 2015.
Siamo come i grappoli maturi delle nostre vigne, come le olive dei nostri secolari uliveti: siamo stati schiacciati, ma possiamo dare oggi la parte migliore di noi stessi.
Angelo Mancini