Le aspettative evocate in occasione della giornata di studi per lanciare la proposta di inserimento del paesaggio vitivinicolo del Sannio a patrimonio dell’Unesco, mi hanno fatto ricordare che questa è una terra che ha sempre dovuto cavarsela da sola. E dunque, ricordando la lezione dei nostri padri, non posso nascondere che la prospettiva di dover consegnare il “vigneto Sannio” all’Unesco mi preoccupa molto. Temo che per i nostri filari di aglianico e falanghina (che i nostri bravi vignaioli ogni anno riescono a far rivivere con tanta fatica e poco guadagno) l’arrivo di questo mastodontico organismo parigino, affollato da funzionari pagati a peso d’oro, non porterebbe niente di buono. Il caso della Val d’Orcia, in Toscana, docet.

Sia ben chiaro a tutti che nessuno sa proteggere Aglianico, Barbera e Falanghina meglio dei vignaioli guardiesi, castelveneresi, solopachesi e torrecusani.  Basta vedere quello che succede al nostro Bel Paese che è il Paese campione del mondo nei siti considerati Patrimonio dell’Umanità (con ben 50 presenze su circa mille siti sparsi nel mondo): fino agli anni Settanta, quando di siti Unesco non ce n’erano ( il primo  è stato riconosciuto nel  1979), eravamo il primo Paese al mondo per visitatori stranieri. Oggi abbiamo 50 siti riconosciuti dall’Unesco e siamo precipitati al quinto posto, scavalcati persino  Francia e Spagna. Sarà una coincidenza? Forse. Ma io sono convinto che i nostri vignaioli preferirebbero che le coincidenze stessero lontano dalla loro amata vigna.

Forse sarebbe molto più utile organizzare un’altra giornata di studio, con presenze istituzionali altrettanto qualificate, per  dare, finalmente, esecuzione alla delibera approvata dall’intero Consiglio Provinciale di Benevento nella seduta del 16.9.1999, avente per oggetto:  “Delocalizzazione degli uffici provinciali dalla Rocca dei Rettori” e da me presentata per far diventare il castello simbolo della città di Benevento il punto focale di una strategia di sviluppo sostenibile  basata su di un’idea-forza: la predisposizione di un itinerario turistico-culturale teso a valorizzare il Sannio attraverso il recupero e la rifunzionalizzazione dei Castelli e dell’architettura fortificata presente nel territorio sannita. Una proposta che, successivamente, è stata   ribadita nel protocollo d’intesa “Sannio dei Castelli” ed illustrata il giorno 30 settembre 2001 nel Castello dei Fremondo all’assessore regionale Marco Di Lello ed al presidente pro tempore della provincia di Benevento Carmine Nardone con l’ausilio del professore Aldo Loris Rossi e dell’urbanista  Franco Bove e per di più arricchita con la prima mappatura dei castelli del Sannio predisposta dalla Feder-Mediterraneo guidata dall’indimenticabile  Franco Nocella. Quindici anni possono essere una vita. E di fatto lo sono. Un ciclo di accadimenti lieti e meno lieti. Ma passano inesorabilmente e non te ne accorgi. Poi un giorno ti fai dei conti rapidi e ti accorgi che il tempo è passato e molta acqua è passata sotto i ponti. Eppure,  quindici anni non sono bastati ai nostri “bravi” amministratori  per tradurre in realtà  le promesse solennemente assunte ed oggi siamo  costretti a dover registrare l’ennesima occasione mancata che forse, guardando a quello che è successo nella Loira sotto l’impulso di Jack Lang, ministro della Cultura nonché sindaco di Blois,  avrebbe potuto cambiare il destino di questa nostra terra. Vale la pena ricordare che Re, papi e feudatari hanno scandito il trascorrere dei secoli nel Sannio dentro e attorno a questi castelli e dai castelli, per oltre mille anni è dipesa la vita di generazioni di sanniti: per motivi di difesa, per ragioni politiche e per sistemi di lavoro legati al regime feudale. Oggi, tramontata la loro era, superate le loro antiche funzioni, costituiscono nel loro insieme un grande contenitore culturale, un grande attrattore turistico e una preziosa occasione di sviluppo economico che il Sannio non può e non deve permettersi il lusso di lasciarsi sfuggire.

E per quanto riguarda le nostre vigne di falanghina e di barbera, chi le conosce sa che sulle nostre colline i filari sono molto stretti: non li si può girare in carrozza. E tantomeno con i carrozzoni.

Ai nostri sindaci viene spontaneo domandare: davvero pensate che i  burocrati francesi dell’Unesco possano proteggere la barbera o la falanghina  più di quanto abbiano fatto i nostri vignaioli? Davvero pensate che il patrimonio Unesco possa far arrivare qualcosa in più in tasca dei nostri viticoltori che vivono un disagio esistenziale ai limiti della sopportazione? Temo che possa succedere esattamente il contrario. Del resto non sono pochi i casi, in Italia e  all’estero, che confermano questa mia preoccupazione.

Guardia Sanframondi 27 luglio 2014

 Amedeo Ceniccola

Foto di Catia Giusti

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