Il canto di Andromaca: la misura dello struggimento e un’alternativa ai guerrieri di ogni tempo. Dare inizio ad un Festival estivo di poesia in musica con un personaggio raffinato come Andromaca, con una voce lirica e con l’Iliade è, di questi tempi, scelta coraggiosa e profondamente etica: l’etica per l’arte della parola e della musica, che da sempre viene praticata come mite, nobile, ostinato contrappeso alla distruzione. La Fondazione Romano ha aperto così la sua iniziativa culturale. Ci sono stati, ieri sera, minuti di intenso silenzio in cui mi è sembrato che l’insostenibile rumore del chiacchiericcio quotidiano e il suo potere anestetico si fossero meravigliosamente sopiti in un canto. Ha cantato, Andromaca, la Poesia di Omero in musica, attraverso l’ incantevole voce di Giacinta Nicotra, di cui mi è piaciuta molto la sobrietà di recitazione, perché ciò che veramente strugge nell’animo è sentire “la misura” del dolore, senza l’anestesia degli eccessi.
Il canto di Andromaca si leva fuori dal coro, ieri come oggi, in tempi di guerra e violenza continue (penso al ratto delle ragazze, ancora bottino di guerra in Nigeria come nell’Iliade). E’ un canto struggente perché una donna, in un poema di fulgidi eroi guerrieri, dà voce coraggiosa a ragioni diverse da quelle divampanti nella guerra. La spinta alla distruzione sta da sempre accanto alla pulsione di vita e corre verso la propria massima realizzazione, che è l’annientamento, con una forza e una bellezza che affascinano l’uomo, proprio come l’Eros. “Dire che la guerra è un inferno e basta”, scrive Alessandro Baricco in un suggestivo testo sull’Iliade, “è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno, ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco”.
Canta nell’Iliade, la coraggiosa Andromaca, in una società guerriera e maschilista, altre ragioni, di vita e di bellezza, ragioni di donna e madre, come i legami con i figli, quelli coniugali, la famiglia: Ettore tu mi sei padre, e madre, e fratelli, e sei il mio sposo, giovane. Abbi pietà di me, resta qui sulla torre.
Canta ostinatamente, Andromaca, con la sua intelligenza tipicamente femminile e strategica, dimostrando di sapere andare oltre la forza amorosa dei legami famigliari, e suggerisce ad Ettore un’altra organizzazione di combattimento: non combattere in campo aperto, fa’ arretrare l’esercito a difendere l’unico punto debole delle mura, dove già tre volte hanno tentato l’assalto gli achei, spinti dal loro coraggio. La sentite, la scaltra proposta di Andromaca, appello al compromesso tra il dovere per la guerra, che palpita nobile nel suo eroe, e la spinta a salvaguardare la vita e l’eros, ovvero la pace. Perché la pace non è assenza di Thanatos, ma una perenne ricerca di equilibrio con esso: bisogna saperne riconoscere il fascino e le ragioni, la compresenza nella vita, per poter ammaliare gli animi con un’altra bellezza, un’alternativa attraente.
Ascoltando Andromaca, ieri sera, mi tornava in mente il finale del libro di Baricco Omero, Iliade, già citato:
“Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura né l’orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche, diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite”. Tocca a noi tutti, donne e uomini, come Andromaca e il suo Poeta, continuare a cercare.
Filomena Rita Di Mezza