Scriveva Borges che “I lettori sono cigni più rari e più preziosi degli scrittori” . E’ la prima volta che scrivo di un lettore del libro, ma in un’epoca in cui si scrive molto, un lettore capace di appassionare ad un testo, raccontando, mi pare fatto “raro e prezioso”.
Dunque, scrivo queste note per ringraziare il Dr Antonio Ricci della lettura, raffinata e ricca di spunti del libro Medici in cerca d’Autore, di Lorenzo Speranza.
Apprendo che il Dr. Ricci è uno pneumologo e non credo sia solo casualità che la specializzazione medica coincida con la sua capacità di “dare respiro” e “pneuma” al testo di cui parla. E già qui siamo in medias res, dato che tra i motivi che spingono ad un mestiere ce ne sono alcuni più profondi e nascosti, come la sensibilità e la storia interiore di ciascuno, che, a mio avviso, fanno la differenza tra i professionisti. Voglio dire che l’indagine delle motivazioni razionali e consce è uno spaccato statistico interessante da cui partire, ma, come ci faceva notare lo stesso Ricci, citando Erri de Luca, il medico come il marinaio naviga su un mare che “è ‘funno” e questo non attiene solo alla Medicina, mare ancora tutto da scoprire e approfondire, ma anche alle motivazioni personali di chi “va per questo mare ”.
Caro Dr. Ricci, scriveva in proposito Conrad che alcuni sono più consapevoli di altri di “navigare su uno sprofondo”, con un prezzo ovviamente da pagare in termini di identità e differenziazione: c’è la superficie delle cose e sotto, ugualmente attraente e spaventosa, la profondità.
D’altro canto, pensavo, viene spesso nominata, durante la presentazione del libro, la scatola nera, scatola che custodisce, indenne dai disastri, la memoria delle ultime vicende prima di uno “sprofondo”. Questa metafora viene usata per chiedersi a ritroso, rispetto a medici che “si ammalano” nel curare gli altri, cosa non ha funzionato, probabilmente, nella navigazione professionale. Cosa, si chiede il Dr. Ricci, spinge una giovane promettente pianista a lasciare questa carriera per diventare medico, precisamente, oncologa? E’ evidente che la storia di superficie, raccontata dalla dottoressa in una delle interviste del libro, non basta al nostro pneumologo e alla sua sete di capire. Ma l’ascolto e la decifrazione della scatola nera non è operazione così semplice e immediata. A volte, infatti, non si trova così facilmente, perché la si cerca nel posto sbagliato. Forse, la rotta seguita dal Dr. Ricci potrebbe essere quella giusta: la ricerca in profondità e il ricorso alla letteratura e ai Poeti, navigatori eccelsi delle profondità dell’animo umano.
Per finire. Durante la presentazione del libro si nominano spesso i teatri anatomici, come luoghi adibiti, con un culmine nel Rinascimento, alla dissezione pubblica dei cadaveri per l’indagine anatomica (faccio notare, un po’ sadicamente, che siamo nell’ anfiteatro delle Terme). Dissezionare il corpo, aprirlo e guardare dentro, “mettere mano nel corpo”: si trattava di operazioni che avvenivano in una struttura detta teatro, perché la forma del luogo ricalcava quella di un teatro, per consentire una buona visibilità a tutti.
Ma il teatro è anche il posto dove si assiste a qualcosa che è vero e falso nello stesso tempo. Vero, perché riguarda moti interiori che sono uguali in tutti noi e in cui ci identifichiamo, falso perché ciò che vediamo è una rappresentazione, cioè se l’attore muore in scena non è che sia morto realmente.
Allora, riflettevo, praticando la dissezione in un posto simile ad un teatro, si aveva la sensazione di qualcosa di vero e falso contemporaneamente e questo aiutava ad esorcizzare la paura della morte. Inoltre, il macabro spettacolo aumentava il potere del medico, ritenuto colui che sapeva mettere mano nel corpo, per carpirne struttura e segreti vitali.
Se provo ad immaginare un elemento di identità comune in chi sceglie di “fare” il medico, penso al bisogno di “mettere mano nel corpo” per cercare di avere un controllo sulla malattia e la morte. “Essere” medico, invece, caro Dr Ricci, mi fa venire in mente la pianista-oncologa, vale a dire chi si trova, suo malgrado, a navigare nel mare “ ’funno” della medicina, perché spinto da una corrente profonda, non immediatamente comprensibile. Ciò, se da una parte ti fa continuare a chiedere “ma perché sono diventato medico?”, “forse è un mare troppo difficile per me”, d’altro canto mette al riparo l’arte medica, perché di un’arte si tratta, da ogni problematica di onnipotenza e spettacolarizzazione. Chi ha praticato la musica, in quanto artista, queste cose le sente e le sa. Così pure chi, come Lei, parlando di medicina e di teatri anatomici, racconta di essere andato a vedere uno spettacolo teatrale e di aver pensato alla propria professione di Medico.
Una cosa è l’arte, una cosa è lo spettacolo, una cosa è essere medico, una cosa è fare il medico, ma credo si tratti di due navigazioni obbligate da fattori non completamente controllabili. Ci saranno sempre entrambe.
Filomena Rita Di Mezza