
Partiamo dal principio. La legge 142/1990, nella sua espressione natia, regolamentava le Unioni come strumenti associativi unicamente finalizzati alla creazione di quelle condizioni necessarie a procedere, in un secondo tempo, alla fusione dei Comuni, prevedendo quest’ultima come obbligatoria dopo dieci anni di vita dell’Unione, pena lo scioglimento dell’Unione stessa. Insomma, la legge pur prediligendo uno strumento associativo indirizzava ad una soluzione strutturale. Ovviamente, il compito di razionalizzare la geografia amministrativa con l’annessa riduzione degli enti comunali non è mai decollato a causa delle varie e giuste resistenze. Che cos’è avvenuto?
Che l’istituto della fusione e quello della Unione dei Comuni vennero separati, con la legge 265/1999 divenendo così, due strumenti di riordino territoriale distinti. Essi, vennero orientati ad assolvere diverse finalità, subordinati alle leggi di riordino regionali. Le Unioni, divennero quindi entità associative a tempo indeterminato, volte all’esercizio congiunto delle funzioni e dei servizi comunali. Lo scopo?
Accrescerne l’efficienza e l’efficacia a prescindere dalle dimensioni demografiche (non come se ne parla oggi). A dimostrarlo inoltre, furono anche gli incentivi regionali e i contributi statali, che vennero erogati in base al numero non di abitanti, ma bensì di funzioni gestite in forma associata. Le fusioni non scomparvero, anzi, rimasero, ma solo per superare i problemi di quei comuni montani. Tant’è che tale fusione non era altro che una semplice evoluzione delle già esistenti Comunità Montane. Ma attenzione, perché: “ se le Unioni introdotte dalla L. 142/90 hanno avuto particolare fortuna a partire dalla rimodulazione del TUEL, che ha soppresso l’obbligo inizialmente previsto per le Unioni di giungere alla fusione entro 10 anni dalla loro costituzione. Successivamente, numerose leggi regionali, a seguito della modifica del titolo V della Costituzione sono intervenute in materia, prevedendo discipline concorrenti, a volte in aperto contrasto con la disciplina del TUEL sulle Unioni. In particolare riguardo agli organi. Sono da segnalare due importanti riforme, la prima quella prevista dall’art. 14 del D.L. 78/2010, convertito in L. 122/2010, che tra l’altro ha indicato le Unioni come una delle due forme di gestione per l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, attualmente individuate nell’art. 21 c. 3 L. 42/09, per i Comuni sotto i 5000 abitanti (l’altra forma è quella della convenzione ex art. 30 TUEL). La seconda riforma è quella dell’art. 16 L. 148/2011, che ha introdotto una nuova tipologia di unioni, le c.d. Unioni Municipali, pensata per i Comuni sotto i mille abitanti”.
Arrivando ai nostri giorni dunque, è solo il prodotto delle manovre correttive del debito pubblico nonché dell’impegno alla spending review che hanno volto al riordino e alla semplificazione delle forme associative, imponendo ai Comuni fino a 5.000 abitanti di esercitare in forma associata tutte le funzioni fondamentali prevedendo così nuovi incentivi per le fusioni. Ma arriviamo al punto.
Qui oggi c’è da chiedersi: se le Unioni dei Comuni nascono già per accrescere l’efficienza e l’efficacia amministrativa, consentendo l’erogazione di funzioni e servizi, prevedendo inoltre anche la realizzazione di economie di scala, un Comune unico può rappresentare nuove e superiori capacità nell’azione di governo del territorio?
La risposta che sentirete è questa: “ Gli studi di fattibilità, indicano che: la fusione dei comuni è l’unica via percorribile nel caso in cui si volessero ottenere maggiori risultati sull’economia di scala in un raggio di un medio – lungo periodo”. Mi sovviene chiedermi a questo punto, (setacciando i vari argomenti e le varie aspettative perché no anche turistiche e le potenzialità della valle Telesina ) a chi fa comodo tutto ciò? Poi, tralasciando quei pochi benefici derivanti dall’esperienza associativa, sottolineando anche i limiti o le criticità del funzionamento delle Unioni, come l’elevata complessità dei processi decisionali (perché ogni sindaco dovrà rispondere comunque al proprio elettorato), la fusione dovrebbe essere l’unico rimedio. E a quale “comune” potrebbe far comodo in un solo colpo sbaragliare tutte le reticenze e imporsi sulla scena come unico pretendente?
La verità è una, la diversa e variabile relazione con i vertici politici non semplifica l’armonizzazione dei servizi unificati con i servizi gestiti direttamente dai Comuni. Di per se, la fusione abbatterebbe i costi della politica e allo stesso tempo, accrescerebbe la legittimazione democratica e l’accountability del vertice politico ma quanto costerà la perdita d’identità (politico-istituzionale, sociale e culturale) di ogni singolo territorio? Inoltre, la costituzione del Comune unico non potrà non essere accompagnato da una significativa centralizzazione decisionale ed amministrativa. Ma tale dinamica potrebbe avvantaggiare solo ed esclusivamente il Comune che diventerà sede della nuova istituzione, creando una asimmetria rispetto agli altri Comuni “fusi” che risulterebbero più penalizzati.
La cosa confortante è che la fusione o meglio l’atto precedente alla fusione stessa deve passare imprescindibilmente attraverso un referendum popolare, che potrà determinare l’esito della scelta.
In conclusione anche dopo aver valutato attentamente ogni dettaglio, chiedetevi: com’è possibile parlare di turismo, d’impresa, di competitività, di programmazione comune,e d’economia di scala se fino ad oggi su tutto questo non si è mai investito un euro?
Ascoltando il convegno di sabato scorso al Palazzo dei Congressi l’unica idea ( proposta) che si aveva in mente era quella d’investire sul patrimonio immobiliare dei comuni provando a richiamare, ammaliandolo, chi era stanco dei ritmi serrati della città(non serve dire quali), con la prospettiva di una vita qualitativamente migliore. A loro ovviamente erano destinate anche le pretese di servizi maggiori che a tutt’oggi però per i residenti dell’intera valle sono veri e propri miraggi (a partire dai trasporti).
Bisogna dirsi le cose chiaramente: la valle non ha mai attirato qualitativamente orde di turisti perché quello che può offrire è sempre stato lasciato al degrado e all’incuria e ragionare sul turismo scarso del mordi e fuggi (perché si tratta di ragionare sull’unico incubatore di turismo oggi che è il Grassano dove il mordi è inteso per scampagnata e il fuggi per evitare il traffico del rientro), è davvero oltre che povero, dannoso ma anche umiliante. Quello che davvero si potrebbe fare, non si fa, perché ogni comune prova a gestire autonomamente i servizi che intersecano maggiori profitti, ovvero: la raccolta differenziata dei rifiuti che potrebbe essere gestita in modo intercomunale (non tocco il tema biodigestore volutamente e da me ritenuto tema delicato e pericoloso), come intercomunale potrebbe essere la creazione di un’ isola ecologia.
Insomma, non possiamo parlare e mi riferisco anche al mio comune (San Salvatore Telesino) di area archeologia solo perché l’abbiamo sulla carta, come non si può parlare di unione o fusione solo perché lo dice la legge. Volendo, davvero in conclusione, si potrebbe anche credere che i principi della costituenda Città Telesina siano davvero alti, e che i dibattiti su PRG, sviluppo urbanistico – economico e sviluppo e promozione del territorio creino davvero per questa terra un motu proprio che in parte la risarcisca e l’arricchisca. Ma in questo caso non vedo perché ci sia il bisogno di utilizzare la legge 148 per farlo. Mi aspetterei, anzi mi aspetto che si firmino al contrario di come si vuole agire, protocolli per uno sviluppo più armonico bloccando così il consumo del territorio (che per una zona agricola è fondamentale). Che magari si rinunci ad avere dieci aree industriali semideserte e s’incrementi quella più ampia è già lottizzata di San Salvatore. Che si chieda ai cittadini cosa pensano, offrendo strumenti di partecipazione attiva senza pensare di accedere prima di tutto ai finanziamenti europei e per farci cosa scusate,visto che non esiste progettualità?
Siamo ancora in tempo per riflettere.. Proviamoci!(almeno)
Michele Palmieri