Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto?  Raimund Gregorius è un professore svizzero di filologia classica. Chiuso e seppellito tra i suoi libri, conduce una vita piatta, incolore. Lo accompagna una latente e sterile insoddisfazione, e tra le lingue morte, piano, si sta spegnendo dentro.

Ma un giorno accade qualcosa. Vede una donna disperata con un cappotto rosso nei pressi di un ponte, e ha l’impressione che voglia farla finita. Le si avvicina e la ferma. Non sa niente di lei (tranne che è di lingua madre  portoghese), ma inaspettatamente decide di portarla con sé. Poco dopo lei scompare. Da quel momento, sulla scia di quel dolce e strascicato accento, e complice un libro di uno sconosciuto scrittore lusitano che ha intravisto in una libreria antiquaria,  la sua vita cambia.Prende quel treno per Lisbona e si mette sulle orme dello scrittore, un tale Amadeu do Prado, medico e intellettuale portoghese.

Immaginate un uomo di 57 anni, chiuso, malinconico, erudito, che improvvisamente molla tutto alla ricerca di risposte. Sì, perché è questo che cerca: spezzare quel muro di protezione che faticosamente ha costruito. Chi non ha mai pensato di lasciare tutto e ricominciare? Ma paralizza la paura, il senso di responsabilità, un naturale istinto di “autodifesa”, il timore di guardarsi dentro e trovare qualcosa di diverso che metta in discussione e capovolga tutta una scala di valori, forse imposta dall’esterno. Poi, improvvisamente, arriva qualcosa di indefinibile che costringe, senza un motivo preciso, ad invertire il cammino.

E’ un errore credere che i momenti decisivi di una vita, in cui il cammino usuale modifica per sempre la sua direzione, debbano essere connotati da una drammaticità chiassosa e stridula, e da violenti maremoti interiori. […] In realtà l’esperienza che determina un drammatico cambiamento di vita ha  spesso una levità incredibile. […].Quando dispiega il suo effetto rivoluzionario e fa sì che una vita sia inondata da una luce del tutto nuova e le sia assegnata una melodia inaudita, lo fa senza strepito, silenziosamente e in questa silenziosità meravigliosa risiede la sua nobiltà particolare.

Mercier Pascal, l’autore di Treno di notte per Lisbona, è un professore di filosofia, e questo si avverte tra le righe del libro. Qui entra in gioco il “caso”, inteso come qualcosa con cui ci scontriamo, che lascia sorpresi, e che può essere un’apertura verso il socratico “conosci te stesso”, mai definitivo, ma in un’ottica di “ricerca”. Il treno e il viaggio nella notte sono elementi fortemente simbolici di un percorso di ricerca interiore.

E ritorniamo a Raimund Gregorius che percorre le strade di Lisbona. Una città così diversa dalla sua efficientissima Berna. Una città che nasconde, tra le sue pietre, segreti inconfessabili. Una città che sa essere tanto dolce nei suoni e nei colori, così come feroce e devastante come il lamento di un fado.

Ripercorre la vita del medico portoghese, i momenti pubblici e privati di un uomo che ha vissuto con passione, con dolore, con dubbi laceranti. Segue le sue tracce tra personaggi ambigui, teneri, sfuggenti che raccontano la loro verità. E lungo la scia lasciata da Amadeu do Prado, ripercorre i momenti più bui e sanguinosi della dittatura di Salazar.

All’ombra dello scrittore portoghese, così diverso da lui, Raimund Gregorius cerca se stesso. L’altro se stesso, quello più vulnerabile e indifeso che, nascosto e schiacciato dalla polvere dell’erudizione e del perbenismo, spinge per uscire allo scoperto. Ed è bastato un incontro fortuito, il libro di un uomo e il suono dolce della parola “Português”:

…una donna con un cappotto rosso di pelle e un dolce misterioso accento del Sud che, come un sussurro strascicato all’infinito, al solo sentirlo creava in chi ascoltava un senso di complicità.[…]. << Qual è la sua madrelingua? >> le aveva chiesto in precedenza. <<Português>> aveva risposto lei.

Un libro bellissimo, fatto di echi, di immagini, di profumi. Un libro in un libro, dove fantasia e realtà si mescolano, dove ciò che conta è spezzare le difese, dove la “passione” è un motore feroce che illumina e devasta. E, come sottofondo, la speranza, forse illusoria, che un giorno sulla scia di un colore, di uno sguardo, di un suono, della “pioggia che ti inzupperà le ossa all’uscita di un concerto” (per dirla alla Cortazar), la vita possa cambiare e si possa afferrare quel treno che corre nella notte.

E’ un viaggio senza meta, ma intraprenderlo significa illuminare, anche se a tratti, una parte di sé, forse la più contraddittoria, la più fragile, la più assetata.

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