Fernando Pessoa  – uno dei più grandi scrittori del Novecento portoghese – rimane un enigma, un mistero che esercita sempre una fascinazione assoluta, inspiegabile.  Chi considera Pessoa il “poeta” del dolore, del pessimismo, dell’inquietudine è in errore. In Pessoa manca l’antitesi gioia/dolore, piacere/sofferenza,  lui va al di là. La sua è un’analisi ed autoanalisi spietata, mai priva di intelligente ironia, che arriva alla conclusione di quanto sia tutto illusorio e irreale:  l’essere umano, la realtà in cui operiamo, i sentimenti.

Il mondo esterno esiste come un attore sul palco: è lì, ma è un’altra cosa.

Osserva se stesso e gli altri con apparente distaccata ironia, cercando “una verità” che sa di non poter trovare. E allora? E allora il “sogno”. Un lasciarsi andare,  perché il sognatore di Pessoa  è un sognatore passivo, il sogno non è finalizzato all’azione (grande illusione  e forma di schiavitù), ma è un lasciare che le sensazioni  scivolino veloce, sfiorando appena la mente, e poi muoiano, dissolvendosi nell’aria, nei profumi,  nei raggi del sole, nel luccichio improvviso di uno sguardo…

Vivere una vita raffinata e senza passioni, al riparo delle idee, leggendo, sognando e pensando a scrivere; una vita abbastanza lenta da poter essere sempre sul limite del tedio, sufficientemente meditata da non trovarvici mai. Vivere quella vita lontano dalle emozioni e dai pensieri, soltanto nel pensiero delle emozioni e nell’emozione dei pensieri. Indugiare al sole, doratamente, come un lago oscuro contornato di fiori. Avere, nell’ombra, quell’aristocrazia dell’individualità che consiste nel non insistere con la vita. Nel volteggiare dei pianeti, essere come un polline che un vento ignoto alza nell’aria della sera e il torpore dell’imbruníre lascia cadere in un luogo fortuito, fra cose più grandi. Essere questo con una ferma consapevolezza, senza allegria e senza tristezza, ma grati al sole per la sua luce e alle stelle per la loro lontananza. Non essere di più, non avere di più, non volere di più… La musica dell’affamato, la canzone del cieco, la reliquia del viandante sconosciuto, i passi nel deserto di un cammello digiuno e senza meta.

Fernando Pessoa,  tratto da  ‘Il libro dell’inquietudine’

La sua non è propriamente un’ascesi, o un distacco dalle passioni  terrene in un’ottica che ricorda le religioni orientali. E’ piuttosto  una lucida e razionale presa di coscienza dell’inutilità del mondo;  è un impossibile desiderio di abdicazione agli affanni, alle gioie. E’ un aristocratico distacco, quasi a voler sottolineare la “volgarità” insita nell’attaccamento alla vita.

L’uomo come flusso di sensazioni, sensazioni che si fondono con la natura, le si abbandonano e si dissolvono, come in sogno, senza lasciare traccia.

Ma il “sogno” non basta. La difficoltà ad accettare il mondo , a relazionarsi, lo rende e lo fa sentire diverso.  Sempre quella continua analisi, quel continuo guardarsi dentro per poi correre il rischio di perdersi  nelle mille sfaccettature della sua personalità,  in un infinito che rischia di essere più finito del finito, e questo Pessoa lo sa bene:

Sognare è niente e non sapere è vano/Dormi nell’ombra, incerto cuore.

Nella prefazione di  José Saramago al libro “Poesie” di Fernando Pessoa c’è una frase emblematica: Non riuscì mai a essere sicuro di chi fosse, ma grazie al suo dubbio possiamo riuscire a sapere un po’ di più chi siamo noi.

Mariella Labagnara

Portogallo  foto di Giovanni Forgione

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