Maria Rosaria Zoino. A distanza di due anni sento il bisogno di rendere pubblico quello che forse si tenta di inquadrare  genericamente  come un “episodio di malasanità”, ma che, in realtà investe anche una ben più complessa quantità e qualità di pratiche e di principi di deontologia professionale, nonché di articolazioni della vita di relazione sociale.

Mi si chiederà: ma perché hai aspettato 24 mesi prima di mettere nero su bianco?

La risposta non è  facile, anche perché investe una pluralità di ragioni, che proverò comunque per una parte a riassumere più in avanti – se qualcuno, ovviamente, avrà la pazienza e la bontà di leggere queste note fino in fondo. La restante parte delle ragioni è presto detta: il dolore (profondo e sordo, qualcosa di ben più lancinante di una carie ad un molare) mi ha a lungo attanagliato e poiché, peraltro, ero presa anche da altre urgenze e dall’obbligo di provvedere alle necessità della mia Famiglia, solo da poco sento di essere  riuscita in qualche misura a razionalizzare e a focalizzare quanto è successo.

Mi rendo conto, però, che la sto facendo troppo lunga.

Dunque, com’è purtroppo noto, un evento drammatico è sempre dietro l’angolo e ti può travolgere quando meno te lo aspetti.

Nel gennaio 2011 la mia Famiglia, dopo aver trascorso con serenità le Festività, è costretta ad affrontarlo. Di botto. Si è tratto di un evento che avrebbe poi avuto un epilogo infausto: mio marito Carlo Luciano, che accusava qualche fastidio e qualche malessere, scopre di avere invece un carcinoma. Un tumore particolarmente aggressivo. Uno di quelli che non lasciano scampo.

Nello svolgere le indagini diagnostiche ci rivolgiamo – com’è ovvio – alla struttura ospedaliera presente sul territorio, cioè al “Rummo” ed ecco che ci scontriamo con quello di cui già avevamo una certa cognizione (sempre vaga, però, fino a quando non ti scontri personalmente con la realtà dei fatti). L’impatto è stato devastante e così quelle che erano “voci” e, che si ritenevano, semplici “maldicenze” (siamo sempre portati ad essere benevoli) hanno, all’opposto, assunto un amarissimo sapore di verità. Quando ti trovi costretto a toccare con mano il “disservizio” – chiamiamolo così -, ebbene capisci che una cosa è come la raccontano, una cosa è la realtà e ti trovi, con stupefazione, al cospetto di una realtà che è peggiore di qualunque fantasia.

Il problema in breve è stato questo: rispetto ad una patologia così severa, come quella contro cui mio marito si è trovato a combattere dalla sera alla mattina, di punto in bianco, sarebbe stato quanto meno auspicabile un atteggiamento di umana comprensione, una manifestazione di solidarietà, un tocco di compassione. Invece no. Al contrario,nonostante “i buoni auspici”, nella struttura ospedaliera alla quale ci si era rivolti con fiducia, abbiamo ricevuto un trattamento che ancora oggi, dopo tutto questo tempo, mi viene da definire di una violenza e brutalità sconcertanti e disarmanti. Da restare senza parole e senza fiato. Con una inutile e disumana crudeltà, ci si è accaniti contro chi – comprensibilmente – si trovava nelle condizioni di spirito di non potersi difendere, avendo appreso di essere condannato a morte.

Eppure non era un robot (almeno all’apparenza) quell’uomo in camice bianco che leggeva la sentenza; si trattava invece di un “professionista”, di un Primario. Cioè di una persona che dovrebbe dirigere e organizzare una equipe, improntando la sua propria azione e quella di tutti i suoi Collaboratori a quei principi deontologici con cui in molti si sciacquano la bocca. Purtroppo, invece, mi sono dovuta rendere conto che la gente viene trattata come fosse una bestia da mandare al macello, trattata con la stessa indifferenza, lo stesso disprezzo, la stessa crudeltà, lo stesso sadismo con i quali i bianchi trattavano i “negri”, o gli “ariani” gli ebrei.

L’approccio ricevuto dal malato, in questo mio marito, all’atto dell’esame bioptico, effettuato presso una “Sezione dedicata” da un professore in pensione, ma che comunque conservava  la possibilità di svolgere ancora la propria attività nel reparto ospedaliero del “Rummo” è stata devastante.

Intanto, oltre ai modi che – per carità di patria – definirei “bruschi” e privi di qualsivoglia sensibilità, ciò che è venuto in rilievo solo più tardi è che a mio marito vengono effettuati ben tre prelievi che più tardi scopriremmo essere stati assolutamente inutili. Prelievi, non è nemmeno il caso di dirlo, dolorosissimi, praticati con una tecnica invasiva che, in un Centro di eccellenza dove in seguito ci siamo recati, abbiamo scoperto essere non più in uso da tempo.

Non basta.

All’atto della restituzione della diagnosi, il “prof.”, senza alcuna delicatezza e senza filtri, dichiarò ai familiari, me compresa, l’assoluta inutilità di qualsivoglia cura, con la precisa aggiunta: “non andate in giro a perdere tempo; è tutto inutile perché ha solo un mese e mezzo di vita”.

Come la vogliamo chiamare questa uscita? Una doccia fredda?

E’ ovvio che il medico deve informare il paziente e deve dirgli la verità; è altrettanto ovvio che questo è altra cosa, rispetto al sadismo.

In ogni caso, rispondo al “luminare” che comunque avremmo voluto avere il conforto di un altro parere presso un centro di eccellenza in altra città di cui avevamo notizia; ma la risposta fu raggelante: “Questi viaggi della speranza non servono a nulla”. Poi il “prof.”, detto ciò, ci gira le spalle e senza dare altre spiegazioni se ne va, lasciandoci di stucco, soli con la nostra disperazione.

Per fortuna, noi familiari abbiamo fatto in quella circostanza da filtro rispetto alla verità così animalescamente rivelata: abbiamo certamente informato mio marito della gravità della situazione, ma gli abbiamo lasciato una speranza, gli abbiamo cioè dato l’appiglio di dimostrare quel coraggio e quella voglia di vivere che lui ha dimostrato sempre e senza cedimenti fino all’ultimo, fino al momento supremo intervenuto peraltro molti mesi dopo la data preconizzata dal “luminare”.

Mio marito, con grande determinazione, ha voluto curarsi fino a quando è stato possibile. E lo ha fatto lontano da Benevento, dove ha incontrato dei grandi professionisti, ma soprattutto dei veri uomini (e donne), cioè persone con la “P” maiuscola, in grado di interpretare il loro ruolo e la loro funzione con il massimo senso di responsabilità, ma nel contempo con il massimo tatto e con la massima disponibilità umana. In grado cioè di capire cosa significa la dignità delle persone, di ogni persona. Il tutto senza minimamente speculare sulle altrui disgrazie. Insomma, comportandosi come è lecito e doveroso aspettarsi in un Paese civile.

Altrove dunque esistono persone in grado di accompagnare il malato, mio marito, con scienza e coscienza, con tatto ed umanità, senza nascondere nulla ai diretti interessati, ma anzi rendendoli tutti partecipi di ciò che sarebbe stato necessario affrontare. Abbiamo trovato strutture, organizzazioni, saperi e tecniche capaci di intervenire a favore e a servizio delle persone malate, accompagnando non solo loro, ma anche le loro famiglie in un momento così difficile della loro esistenza.

Se anche si è giunti alla fine della propria vita, anzi soprattutto in quel momento, si ha il diritto di partecipare con piena consapevolezza agli ultimi attimi, trovandosi accanto a persone che sappiano rispettare la dignità di tutti.

Direi dunque che un altro mondo è possibile: e lo dico perché ho visto luoghi e persone capaci di organizzarsi considerando in primo luogo la qualità della vita dei malati e dei loro familiari nella convinzione che un giorno, un mese, 19 mesi … hanno il diritto di essere vissuti pienamente e al meglio sia dal malato che da chi gli sta accanto.

Abbiamo avuto modo di verificare che ci sono Ospedali dove si pratica l’umanizzazione del rapporto e dove, entrando, non si diventa solo un codice del quale liberarsi al più presto.

Se è ormai inutile sprecare altre parole per sottolineare le differenze tra il “nostro” Ospedale e le altrui strutture, non posso fare a meno di sottolineare che, se fossimo stati degli sprovveduti (e purtroppo ce ne sono tanti), mio marito non avrebbe potuto godere di altri 19 mesi dell’affetto mio , dei suoi figli e dei suoi grandi amici. Tutto questo capita in un territorio che si spinge a definire eccellenze strutture che, invece, andrebbero riformate e concretamente poste sulla frontiera del servizio pubblico in maniera più adeguata alle domande della popolazione, sia in materia di assistenza sanitaria che di accoglienza e tutela della dignità della persona. Nella provincia di Benevento ciò sarebbe possibile solo se si facesse tutti, vertici, operatori e società civile, uno sforzo di comprensione della reale gerarchia dei valori da mettere in campo. Eccellenza è un concetto troppo alto per essere declinato esclusivamente a vantaggio dei titoli di giornale. Andiamo a scoprire le vere eccellenze, cerchiamo di capire come esse si costruiscano sul territorio. E, nel Sannio, vi sono potenzialità che andrebbero valorizzate.

Mi rendo conto che devo ancora una risposta al lettore che ha avuto il coraggio di giungere fino a questo punto.

Perché queste considerazioni oggi?

Perché come dicevo oggi, proprio perché  sto digerendo la rabbia, la stizza e l’impotenza per la perdita di mio marito, posso permettermi anche di fare qualche riflessione avente un carattere più generale. Forse perché si avvicinano le Elezioni e tutti noi cittadini siamo chiamati (con tutti i limiti di una democrazia parlamentare e, soprattutto, con tutte le nefandezze di questa legge elettorale vigente) a dire la nostra sul nostro vivere civile.

Noi cioè dobbiamo chiederci tutti come possiamo e dobbiamo chiedere ed ottenere un servizio sanitario più adeguato e più efficiente, più rispondente ai diritti del malato e più confacente alla marea di denaro pubblico che su di esso viene investito. E’ giusto chiedersi come un cittadino qualunque, che non abbia particolari conoscenze in campo sanitario, che non abbia dimestichezza di Centri di eccellenza, che non abbia informazioni da parti di “intermediari”, sia messo nelle condizioni di ottenere risposte giuste ai suoi bisogni in fatto di salute.

Interrogarsi su questi temi è dovere di tutti: di chi esercita il voto, ma anche (e soprattutto) da parte di chi lo chiede.

E’ però anche un dovere degli organi di informazione tornare a parlare, a soffermarsi, ad indagare su quanto avviene sia nella sanità pubblica che in quella privata, non solo alla ricerca degli scandali, ma anche e soprattutto alla ricerca della qualità normale di un servizio normale, garantito a tutti. Non possiamo tutti noi, e quindi anche gli organi di informazione non chiederci come mai non sia ancora giunto nei nostri Ospedali quel processo di umanizzazione che consente di trattare senza disprezzo e senza alterigia un altro essere umano che si trova in condizioni di bisogno e di difficoltà, soprattutto se non ha “santi in paradiso”.

Dobbiamo chiederci tutti  come vengono soddisfatti i bisogni della nostra popolazione in campo sanitario (e non solo – è ovvio): è vero che si nasce e si muore, ma è anche vero che il modo in cui avviene sia il primo che il secondo evento costituiscono il discrimine sulla qualità della vita e sulla qualificazione stessa di un popolo come civile o incivile, come moderno o come arretrato.

Al centro di tutti gli interessi deve essere messa la persona. E non altro.

Perché andare lontano dalla propria città per poter ottenere un approccio terapeutico ed una presa in carico da parte delle strutture sanitarie che sia rispettoso?

Perché doversela cavare da soli anche nella individuazione degli eventuali percorsi di assistenza e non realizzare con umiltà una seria rete che, partendo da nostri luoghi, invii, quando necessario, i nostri malati in strutture di eccellenza con le possibilità di un continuo legame con il proprio territorio?

Perché non rendere i nostri ospedali disponibili ad una umanizzazione rispondente ai bisogni della popolazione? Perché, nonostante le ipotesi progettuali degli anni scorsi, non si è mai posto al centro dell’agenda dei vertici sanitari la necessità di un centro per malati oncologici terminali?

Queste ed altre considerazioni mi hanno accompagnata nel corso di questi due anni e sono sicura che le stesse riflessioni appartengono e sono custodite nel cuore di tante altre persone che non vedono o non hanno visto riconosciute analoghe esigenze o che hanno visto negati i propri bisogni, tra i quali quelli connessi al diritto di ricevere cure adeguate e rispettose nei propri luoghi o di essere accompagnate nei percorsi fondamentali della propria vita.

Io penso che i nostri organi di informazioni dovrebbero parlare meno di tattiche e tatticismi, di alleanze e di percentuali di voto, di sondaggi e di preferenze. Al loro posto dovrebbero essere al centro dell’attenzione problematiche ben più forti e centrali e soprattutto i diritti calpestati.

Questa nuova focalizzazione e questa nuova chiamata di responsabilità collettiva potrebbe probabilmente essere utile ad evitare quegli affarismi, quelle spartizioni politiche, quei rapporti di nepotismo, quelle inutili, vuote e dannose, visibilità, quei rumori di fondo compulsivi che distolgono, a dire il vero, la gente comune dall’impegno per la cosa e per il bene pubblico.

Chiedo scusa per lo sfogo (molto lungo – lo so); ma sentivo di doverlo fare per mio marito, per quanti hanno sofferto una esperienza analoga e/o che rischiano di viverla.

Grazie.                                                                                   

Maria Rosaria Zoino in Luciano  (psicologa dirigente Asl Bn1)

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