Aldo Maturo. L’Antica Banca dell’Acqua Solfurea ‘e zi Nennella, fotografata da Luciano de Crescenzo nel suo famosissimo libro “La Napoli di Bellavista”, ha rappresentato il più famoso monumento ad uno dei più antichi mestieri napoletani, l’acquaiuolo. Forse se ne trovano anche oggi, ma di certo fino agli anni ’60-‘70 gli angoli delle più trafficate strade di Napoli erano corredati dai chioschi dell’acquaiolo, simbolo della spensierata napoletanità nell’inventarsi un mestiere.
L’acquaiolo, nato come venditore ambulante nella zona mare, un po’ alla volta aveva acquistato negli anni una propria dignità e stabilità tanto da avere un posto vendita fisso, formato da un chioschetto dove venivano poste in bella mostra ‘e mummarelle, gli orciuoli, “splendide anfore in terracotta che possedevano la caratteristica di conservare sempre fresco e godibile il liquido in esse contenuto: la mitica acqua sulfurea di Santa Lucia”. A richiesta l’acqua poteva essere servita insieme alla spremuta di limone o arancia con un pizzico di bicarbonato per far digerire anche le pietre.
In quegli anni da Piazza Garibaldi, uscendo dalla Stazione Centrale, fino al teatro S.Carlo, c’erano almeno una decina di chioschi di acquaiolo, civettuoli, adornati da grappoli di limoni e arance, enormi blocchi di ghiaccio per fare la granita, attrezzi per le spremute e sciroppi di vario tipo. Su molti chioschi spiccava la pubblicità dell’Acqua di Telese e la cosa, allora, mi sorprendeva ed inorgogliva.
Gli acquaioli o ancor più le opulente acquaiole non si limitavano a vendere, ma dovevano attirare il passante invitandolo a bere acque dalle doti straordinarie. E ogni volta si ripeteva la domanda di rito, in uno storico ed intramontabile gioco delle parti, prima di iniziare il sorseggio: “Acquaiuo’ comm’è l’acqua?” cui seguiva da sempre la stessa risposta “E’ fresc’ comm’ a neve!”
Mi sono chiesto che fine ha fatto la banca dell’acqua in marmo ritratta nel libro di Bellavista e, tramite una ricerca su internet, l’ho ritrovata in una foto di Piazzetta Teodoro Monticelli, zona Banchi Nuovi, a Santa Chiara, vicino a Palazzo Penne.
Nel rivedere quella foto del passato e quella del presente mi sono andato a rileggere il brano con cui De Crescenzo aveva corredato la foto storica ‘e zi Vincenzina, erede di zi Ninella, davanti all’Antica Banca dell’Acqua Solfurea. La donna, dopo aver ricordato che quella Banca era della sua famiglia da 300 anni e che era stata ristrutturata in marmo alla fine dell’800, si lamentava che ora correva il rischio di chiudere perché una nuova legge prescriveva che lei superasse l’esame per avere la licenza d’acquaiola.
“Ma com’è questo esame?”
“Dottò la sapete la schedina? Uno,ics,due? Ecco qua, noi dovevamo mettere le X alle risposte dei quiz. Gesù,Giuseppe Sant’Anna e Maria! Ma se io sapevo rispondere ai quiz me ne andavo da Mike Buongiorno e a quest’ora tenevo i milioni!”
“Erano difficili le domande?”
“No,le domande erano facili solo che loro non le sapevano fare.Per esempio invece di scrivere: di che colore deve essere l’olio di oliva, loro scrivono:quali sono le caratteristiche organettistiche…”
“Organolettiche”
“Eh,organolettiche dell’olio di oliva? E poi: che cosa è il pesce lischifilizzato?”
“Forse voleva dire: liofilizzato?”
“Dottò, io vendo acqua minerale e spremute di arance e di limoni. Se i signori professori vogliono sapere da me come si fa una spremuta di limone, sono a disposizione per qualsiasi esame e se no mi danno a mangiare loro, ma a me là sopra non mi vedono più! Piuttosto voi non conoscete a nessuno per vedere se è possibile farmi avere una licenza ad honorem..?”
http://aldomaturo.blogspot.it/
Aldo Maturo 1290 letture al 31/12/2012
Da Napoletano devo ancora una volta ringraziare Aldo Maturo perché ci ricorda vecchie tradizioni popolari napoletane (anche quelle negative!).
“A banca ‘e l’acqua” era una istituzione a Napoli e tutte, o quasi, si rifornivano a due fonti famosissime: al Chiatamone dove sgorgava la “suffregna” ed a quello prossima al molo Beverello dove sorgeva la “ferrata”. Quest’ultima veniva utilizzata di più dalle “banche dell’acqua” poiché ci si faceva la “gassosa” (acqua ferrata, succo di limone appena spremuto e un cucchiaino di bicarbonato). Mi ricordo che alla “Torretta” ce n’era una storica, forse era proprio quella a cui si riferiva il Prof. Bellavista, dove era un rito per tutti i giovani andare a farsi la gassosa, dopo la pizza, per fare la gara dei “rutti” (chiedo scusa per la volgarità)e digerirla bene.
Ora di quelle fonti si sa poco: una, quella del Chiatamone, venne fatta murare dal figlio di un ex Presidente della Repubblica (non faccio nomi) che, non si sa come, riusci a comprarla con l’immobile che la sovrastava; di quella del Beverello cercherò notizie, ma scommetto che il bravo Aldo Maturo ne sa molto di più.
Aldo, sono scomparse le acquaiuole perché l’acqua di Telese costa un occhio.
Scherzo naturalmente, ma non fa male un tantino di ironia.
Quando abitavo a Napoli mi recavo tutti i giorni al Chiatamone per bere la mummarella d’acqua solfurea di Telese con l’aggiunta di poche gocce di succo di limone.
E poi l’acquaiuola aveva due “mummarelle” grosse così.
Pietro Quercia.
A Sergio Paliotti chiedo se per caso conosce l’origine di quel famoso detto proprio del nostro intercalare napoletano, ovvero “prendere il……. per la banca dell’acqua”.
Per chi non conosce l’espressione, significa prendere una gran cantonata.
Il detto lo conosco benissimo, ma mi pare sia di cattivo gusto tirarlo in ballo in questa occasione. Il confronto serve sempre, chiaro, pacato, sereno.
Le allocuzioni gratuite, senza chiarimento no.
Anch’io mi ricordo un vecchio detto: “‘o parla’ chiaro è fatto p”amice”, ma qui mi pare una rincorsa alla facile ironia.
Buongiorno Sergio,
guarda che hai frainteso assolutamente il senso del mio intervento.
Non c’era alcuna ironia spicciola o semplice da parte mia: molto più semplicemente, avendolo sentito spessissimo ma non avendone mai capito il riferimento, pur avendolo chiesto spesso, pensavo e speravo potessi giustificarlo tu, visto che ti vedo molto ferrato in tradizioni e detti popolari.
Tutto qui.
Chiaro che il confronto debba essere sempre pacato, chiaro, sereno: infatti non mi pareva e non era mia intenzione urtare la tua suscettibilità.
Per quanto mi riguarda, chiusa qui, con una stretta di mano virtuale.
Comunque, a ristoro della ironia facile: faccio ammenda. Non essendo un idrologo, confesso la mia ignoranza, non avevo associato i due termini “suffregna” e “ferrata” che sono la stessa cosa, ma nell’economia del discorso mi era sembrato poi inutile ritornare sulla faccenda.
Per precisione dirò, sperando di non beccarmi un’altra allocuzione “sfiziosa”:
Acqua frizzantina, carica di sodio e sali minerali, color marroncino e dall’inconfondibile odore di zolfo.
Fino al 1973, quando ci fu un piccolo focolaio di colera a Napoli, l’acqua suffregna – o ferrata – era una bevanda famosa e apprezzata, venduta dagli acquaioli nei vicoli della città e bevuta da molti.
Bibita digestiva e – a detta anche di alcuni medici – ricca di proprietà benefiche (per combattere anemia e carenza di ferro), l’acqua ferrata si poteva bere liscia, con l’aggiunta di succo d’arancia, limone e bicarbonato, oppure addirittura allungata con il vino.
Era l’acqua del Chiatamone, poiché la fonte sgorgava da quelle parti. Da lì, veniva poi raccolta dagli acquaioli nelle cosiddette mummare, ovvero delle fiasche in terracotta di forma panciuta.
Ed era anche e soprattutto una curiosa nota di folklore tipicamente napoletana, che attirava i turisti e piaceva in ogni caso agli abitanti della nostra città.
Purtroppo la falda acquifera da cui sgorgava l’acqua, sotto il monte Echia a Santa Lucia, fu chiusa dal Comune per motivi igienico-sanitari. I veri motivi erano altri e chi si ricorda chi comprò l’albergo Continental, un certo M.L., ricorda anche che la fece murare perché i napoletani continuavano a berla.
Nel 2000, l’acqua suffregna tornò di nuovo a sgorgare lungo i marciapiedi nei pressi del Palazzo Reale: fatto quasi incredibile.
Il Comune, per questo motivo e sotto la spinta dell’opinione pubblica, promosse un’opera di recupero che si concretizzò nella realizzazione di quattro fontane a via Candida Fonzaga.
Questo finché i tubi non si ostruirono, la falda fu dichiarata nuovamente inquinata, e fu necessario un periodo di manutenzione per rimetterla in sesto.
Però, per chissà quale motivo, l’interruzione momentanea per il cambio dei filtri si è rivelata ben più lunga del previsto, dal momento che le fontane sono state sigillate e mai più riaperte.
Ora, se questo deve essere il modo di parlare di “fattarielli” partenopei, lasciamo perdere. Prometto di non intervenire più, così nessuno dovrà fare ricorso a ironie fuori luogo.
Scusatemi un’ultima precisazione:
articolo di un personaggio noto a Napoli, se non lo conoscete potete informarvi
“ZUFFRÈGNA” O “FERRATA”, L’ACQUA DELLA NAPOLI D’ALTRI TEMPI
Sembra che, ormai, neanche più la gloriosa acqua del Serino sia in grado d’assicurare un coefficiente accettabile di potabilità; e dire che in un passato – che, pure, va facendosi un tantino remoto – a dissetare il popolo napoletano provvidero due altrettanto gloriose sorgenti, quella del Chiatamone e quella del Beverello, dalle quali fluivano, rispettivamente, l’acqua zuffrégna e quella ferrata. Di quest’ultima, che lasciava intorno al cannello d’uscita una concrezione rugginosa, si tornò a parlare qualche decennio fa, ma voci d’inquinamento fecero tosto tornare il tutto nel dimenticatoio, a onta della «virtù di lei», che un’iscrizione del 1° settembre 1731 dichiarava «sperimentata giovevolissima», al punto che il Tribunale di San Lorenzo ne vietò la commercializzazione senza sua licenza «sotto qualsivoglia colore, e pretio», comminando per la violazione la pena di «docati cinquanta, e mesi sei di carcere». Eppure, nel suo periodo aureo vi fu addirittura una popolana, sua appassionata consumatrice, che giunse al punto di convincersi d’esserne rimasta “metallizzata”, fino a passare alla leggenda col nome di Mariuccia ‘e fierro.
Più celebre della ferrata, l’acqua zuffrégna, col suo alone giallastro e col suo retrogusto sulfureo, di vago sentore telesino, era commercializzata dalle banche ‘e ll’acqua nelle caratteristiche mùmmere ed era addizionata da taluno con succo di limone e una puntina di bicarbonato, dando vita a una rudimentale gazosa. Si racconta, addirittura, d’una signora napoletana che, avendone richiesto un bicchiere in un bar di Roma, facendo ricorso al suo nome dialettale, si ricevette lo sguardo scandalizzato del barista, il quale le domandò, incredulo, su… che cosa la volesse.
La sorgente di quest’acqua si trovava in una sorta di cortile di via Chiatamone, poi inglobato nell’area sulla quale sorse l’Hotel Continental; e anch’essa, proprio in quel periodo, fu fatta oggetto d’una sorta di “diceria dell’untore” d’inquinamento, con l’evidente mira d’eliminare ogni ostacolo alla realizzazione della struttura alberghiera. E da quel momento Napoli è condannata a dissetarsi a colpi di bibite gasate e d’acque minerali intitolate a un buon numero di santi del Paradiso.
Sergio Zazzera
Gentile Pino, sono felice della tua risposta e felicissimo di stringerti la mano. Scusa se ho frainteso. Spero di poterti conoscere di persona, ma forse ci siamo gia conosciuti quando sono stato direttire del Grand Hotel Telese.
Buongiorno Sergio, a proposito di “Personaggi del passato” chiedo a te e ad Aldo Maturo di scrivere qualcosa ricordando il celebre “venditore di brodo di polipo” che io, bambino, ricordo presso Porta Capuana a Napoli.
Ricorderai sicuramente il piacevole calore che trasmetteva quella bevanda nella quale forte era il sapore del pepe, soprattutto d’inverno, quel tepore dapprima tenue e poi via via più forte.
E mi sia consentito un ricordo personale: le simpatiche baruffe tra mia madre (“ma cosa gli fai bere? Ma no, non glielo far bere, chissà come è fatto”) e mio padre (“Ma dai, solo un goccio, che vuoi che gli faccia”).
Chiaro che…..invecchiando, ciascuno tende ad ammantare di un’aura “mitica” i ricordi della propria fanciullezza, e facilmente si scade nel “era meglio prima”.
Però forse, effettivamente, trenta/trentacinque anni fa, era proprio diversa la gente a Napoli, era diversa l’aria di ospitalità e di relazioni sociali che si respirava, ma forse, parlando con telesini/amorosini da generazioni, mi diranno le stesse cose delle nostre comunità.
Molto più semplicemente eravamo diversi noi, non so dire se migliori o peggiori.
– ve faccio bevere ‘o broro
d”e purpetielle verace,
chin”e pepe.-
Questa era la voce di richiamo “ufficiale” dei venditori di “broro ‘e purpo”
Famoso fu ” ‘o luciano” (mi pare si chiamasse Mattia) a Porta Capuana che, nei mesi invernali, davanti alla sua vecchia e “onorata” trattoria, piazzava un calderone di rame sulla classica fornacella a carbonella, nel quale bolliva un enorme polpo condito esclusivamente con sale e tantissimo pepe, con l’aggiunta del limone nella tazza. Mi ricordo che il mescitore mi chiedeva se nella tazza ci volessi anche la “ranfetella” e/o i “jammarielli” (tentacoletto di polpo e neonata di gamberetti). Non posso dirmi certo della agibilità igienica di quella tazza che in qualche modo il brodo bollente sterilizzava, quel che è certo è che la tazza era bollente e pepatissima. Un toccasana nelle giornate di freddo e pioggia.
” ‘o luciano” offriva anche la “caponata calda” fatta con le “freselle” (piccole ciambelle di pane secco) bagnandole col brodo di polpo e coprendole con piccoli pezzi di polpo e cozze appena appena aperte con un salto in padella. Il brodo della caponata, mi ricordo, anziché con il pepe, era condito col peperoncino.
Il brodo di polpo veniva venduto anche da ambulanti che mettevano fornacella e calderone su improvvisati “carruocci” (artigianali carrelli in legno con, al posto delle ruote, cuscinetti a sfera).
Ma ” ‘o broro ‘e purpo” era solo uno dei tanti prodotti venduti dagli ambulanti napoletani. C’erano i venditori di “spighetta” (pannocchia bollita), quelli di sorbetto al limone con il loro caratteristico richiamo ” ‘o vulite ‘o limone?”, venditori di ricotta di “fuscella”, venditori di latte inacidito (la loro versione dello yogurth), venditori di ciociole (arachidi infornate, semi di zucca seccati e salati, ceci trattati allo stesso modo) che come richiamo avevano un fischio a vapore; qualunque cosa si mangiasse veniva distribuita, nei quartieri popolari, da questi ambulanti.
La figura di ambulante più ricercata dalle massaie era, però, ” ‘o sapunaro”, ma questi merita un discorso a parte.
Concordo con te, amico Pino, sui bei tempi andati, ma mi preme dire che, forse, era la povertà, quasi globale, ad accomunarci ed a farci sostenere l’uno con l’altro. In pratica quello che ci mancava in tasca lo cercavamo (e trovavamo) nel cuore.
a proposito di “personaggi del passato di Napoli” vorrei chiedere ad Aldo Maturo, se ne avrà voglia e tempo, di parlare, col suo stile avvincente, di “Fortunato” il celebre venditore di taralli al quale il grande Pino Daniele ha anche dedicato una canzone.
Caro Sergio, mi dispiace ma non conosco “Fortunato”. Tutto sommato io Napoli l’ho frequentata essenzialmente per motivi di studio ma non ci sono vissuto e con mio dispiacere tante cose mi sono sfuggite. Alla prossima.
Buona estate! Aldo Maturo