Quando la felicità era fatta di pocoQuando la felicità era fatta di poco i bambini usavano la fantasia e i giocattoli veri restavano nelle vetrine perché in casa c’erano cose più urgenti da comprare. I bambini più fortunati potevano contare sulle costruzioni in legno o sulle macchinine di latta. Barby e le sue eredi non erano ancora nate e le bambine potevano aspirare solo a bamboline di pezza imbottite di segatura, con abiti da damina e visi in miniatura. Se giocavano all’aperto, sceglievano in genere tra la “campana” o il “nascondino”.

Ma anche così le ore scorrevano serene alternandosi a quelle della scuola, senza altre alternative fino a quando la televisione, dopo il 1958, invase le case iniziando comunque i programmi alle cinque di pomeriggio. Nel silenzio del paese il vociare di chi giocava riempiva la strada, il giardino, la piazza della chiesa. Come per un passaparola misterioso i giochi rimbalzavano ciclicamente di rione in rione e dal quadrivio alla stazione, dalla chiesa all’acqua fetente ci si divertiva allo stesso modo, creando i giocattoli con materiali poveri e facilmente reperibili, rivivendo quelli che venivano dalle tradizioni di sempre, rincorrendosi dietro un pallone di plastica o rintanandosi nel gioco più praticato, “indiani e cow boy”, forse perché la lotta è istintiva nei maschietti o forse perché a casa, nei racconti attorno al braciere, il ricordo della guerra era ancora troppo vivo.

La pistola era di legno, intagliata con ore di lavoro, la spada era fatta da una tavoletta lunga e sottile incrociata da un bastoncino al posto dell’elsa e il fucile era sempre di legno ma, per i più sofisticati, portava un elastico che si tendeva dalla punta della “canna” fino a una tacca sul “calcio”. Si mirava e col pollice si faceva scattare l’elastico per vederlo schizzare in avanti di qualche metro.

I mucchi di sabbia dei muratori erano provvidenziali per giocare “a palline”, le biglie di vetro multi colorate. Si scavava prima il percorso inventandosi curve e rettilinei, si creavano ardimentosi tunnel proteggendo il tetto con un legno coperto di terra e poi iniziava la gara. Pollice e indice o pollice e medio, le dita che scroccavano tra di loro con un giusto dosaggio e la pallina partiva verso il traguardo, badando bene a non debordare.

Lo strummolo, ancora oggi in auge, era invece una minitrottola di legno che doveva girare più a lungo possibile su se stessa dopo essere stata lanciata tramite una cordicella che l’avvolgeva tutto intorno nelle scanalature a spirale. La bravura consisteva nel far cadere ‘o strummolo perfettamente perpendicolare al terreno, dandogli con il lancio che srotolava la funicella la giusta velocità. Quando il lancio non riusciva ‘o strummolo cadeva a terra barcollando come un ubriaco.

Chiamavamo “freccia” quella che era la fionda. Si girava nei giardini e negli oliveti per trovare il ramo giusto da staccare. Doveva avere la forma di una Y abbastanza aperta e biforcuta. Sui due lati svasati si legavano i lacci di gomma normalmente ritagliati da una vecchia camera d’aria e fissati ai legnetti con un cordellino di metallo. Tra i due lacci si inseriva una pezza di pelle, scarto del calzolaio di famiglia, che serviva a contenere il sasso, pronto a partire come un proiettile dopo aver teso e rilasciato gli elastici. I più birichini usavano la fionda per andare a caccia di uccellini o lucertole, gli altri per centrare bottiglie o barattoli. C’era chi a primavera girava per mesi con la fionda che gli usciva dalla tasca posteriore del pantalone pronto a tirare al primo uccelletto fermo su un ramo.

Altre due “armi da guerra” erano la cerbottana e l’arco. La cerbottana si ricavava di norma da una canna bucata lunga 25 – 30 cm e si usava per sparare i ceci o i sassolini. L’arco lo si costruiva con una canna di bambù, quelle verdi usate anche per la pesca, che si faceva flettere legando alle opposte estremità un solido filo di spago. Le frecce, fatte con canne più sottili, partivano saettando e mettendo a grave rischio gli occhi del “nemico”.

Periodicamente ritornava la moda del carroccio, una tavola dotata di un bastone anteriore e posteriore dove, come in un asse, si incastravano le “ruote a palline”, quattro cuscinetti a sfera per auto che ci si procurava dopo aver corteggiato per giorni un meccanico amico. Il carroccio più elaborato prevedeva che l’asse anteriore venisse innestato al centro della tavola così che, collegandola a uno spago, si poteva ruotare a destra o a sinistra.

La pista era di solito il Viale Minieri, anche perché meno trafficata di auto rispetto a Via Roma. Si montava a turno sulla tavola in uno o due e gli altri dietro a spingere per lunghe ricorse, tra il divertimento e le risate quando il carroccio si ribaltava e si finiva gambe all’aria.

Mazze e piuz era uno dei giuochi più semplici. Bastava un bastone lungo circa un metro e un piuz, un bastoncino più piccolo, di circa 15 cm, appuntito su tutti e due i lati. Colpendo ‘u piuz col bastone su una delle due estremità lo si faceva saltare in aria pronti a ricolpirlo con lo stesso bastone per farlo volare il più lontano possibile.

L’estate era il tempo “du ciucciu” e dei quattro cantoni. ‘U ciucciu era divertentissimo ma era necessario essere in molti. Ci si divideva in due gruppi di almeno tre o quattro unità. Un gruppo, a sorte, doveva restare sotto e l’altro doveva accavallarsi sopra. Il primo della squadra di sotto si appoggiava a un muro o a un albero e dietro di lui gli altri, curvi e ben ammanigliati ai fianchi di chi gli stava davanti. Il giuoco iniziava e i cavalieri, uno alla volta, dovevano saltare a gambe larghe sul groppone di chi stava sotto. Naturalmente il primo che saltava doveva cercare di andare il più avanti possibile per consentire a chi lo seguiva di avere lo spazio sufficiente per “sedersi” sulla schiena di chi stava sotto. Si vinceva se anche l’ultimo riusciva a saltare e trovar posto e quelli di sotto non si erano “scunecchiati”, prima per il peso.

Il giuoco dei quattro cantoni era aperto anche alle femmine e si svolgeva, per noi del quadrivio, sul viale Minieri, dove la presenza dei platani rappresentava una postazione ideale. Si giocava in cinque, uno ad ogni vertice di un quadrato ideale (i platani) ed uno al centro, giocatore libero. Quelli che occupavano la postazione dovevano cercare di scambiarsi il posto velocemente e di continuo mentre il giocatore libero doveva cercare di occupare con uno scatto una delle due postazioni rimasta libera durante il cambio. Chi perdeva il posto diventava giocatore libero e il gioco continuava con ritmo attento e scattante.

Giochi semplici, fatti di poco, facendo volare la fantasia che non costava nulla. Si tornava a casa stanchi ma sereni, pronti a inventarsi un nuovo giorno.

Aldo Maturo 877 letture al 31/12/2012

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